Articolo pubblicato su IUA n° 10, Anno II, Novembre 2015

A Venezia il traghetto della sera accompagna la notte sulla laguna solcando canali la cui voce si espande per le calli e il moto ondoso formato dal taglio dell’acqua naufraga sui bordi di pietra dei camminamenti.

A Venezia cala la notte, ma non è come nelle altre città, qui le ombre giocano con l’acqua che sciaborda sui portoni di scalini degradanti nel canale; qui, le luci dagli appartamenti cullano la decadenza e l’impossibilità di una città galleggiante; qui, i muri, uno di fianco all’altro, sono impregnati di bagnato, di muffa e di mucillaggini verdi che si arrampicano su pareti graffiate dalla forza della calma apparente.

Lenta, continua, inesorabile la laguna accarezza mortalmente i nobili palazzi che poggiano sul nulla, una corte sospesa intorno a piazza San Marco e uniformemente distribuita al limite tra mare e cielo.

Bellezza decadente, colpevole di un passato troppo lustro come Repubblica marinara, luogo di mercanti, mercanzie, crocevia di traffici intensi tra oriente ed occidente.

I canali sono punti d’incontro tra passato e presente e un futuro che non arriverà, nuova Atlantide, risparmiata dal lavorio dei fondali.

Punti dove s’intersecano gondole e motoscafi nella scia bianca della modernità che contrasta con l’alterigia di un veliero e la prepotenza grossolana di una nave da crociera sbalzata sopra i campanili.

Dalle finestre la biancheria ricamata sollazza turisti dallo scatto incessante di foto pazze e isteriche.

Dalle finestre, bifore e monofore, broccati opulenti tappezzano pareti, tende e divani.

Dalle finestre vetri colorati e soffiati disegnano figure di animali stilizzati, immaginari e immaginati.

È la città da ricerca del tempo passato e di una storia già stata e vissuta, una città per innamorati amati o respinti in angoli irripetibili, quando i sospiri segnano i ritmi naturali dell’anima universale dell’uomo uniti all’espressione artistica di costruzioni architettoniche.

Ma se cala la notte è come se calasse l’ombra di ieri, è come se tutte le maschere uscissero dai loro nascondigli secolari, dalle segrete dei palazzi, dai cunicoli sotterranei per riappropriarsi di ponti, ponticelli, viuzze volteggiando attraverso grate oscure.

Dame d’oro, d’argento, lilla, viola, nere, corallo, blu si aggirano vorticose con indosso mascherine ricamate che ne esaltano i lineamenti sensuali e voluttuosi, avvolte nella seta e nella rete di arabeschi a effetto domino: se si taglia un filo, l’abito si smaglia in un subito tra piume di struzzo e sottogonne di pizzo.

Cagliostro e Casanova seducono con uno sguardo la dama diafana dal manto rosso passione.

Thomas Mann si aggira tra il suo Tazio e le fanciulle in fiore di fine ottocento in una piazza San Marco sulla quale incombe la Morte a Venezia.

Lo sfrenato divertimento carnevalesco è ora sopito dentro negozi artigianali dove ogni giorno prendono forma abiti, parrucche, maschere su manichini che a notte fonda lasciano l’atelier per riversarsi sull’increspatura dell’acqua antistante; danzano le ore sulle note di violini delle quattro stagioni di Vivaldi proiettando le lancette dalla primavera all’estate e dall’autunno all’inverno.

All’improvviso il sole.

Quando il sole sorge, fuggono i fantasmi delle maschere a rintanarsi nei quadri appesi o nei negozi dai quali si sono allontanate, pronte a ricomporsi statiche per i turisti.

No, non comprendono i turisti la loro anima, bambine mai cresciute nascoste nei sogni dell’infanzia e desiderose di travestirsi, quando si appaga ogni piacere e ‘lo voglio’, diventa imperativo.

In un soffio fuggono e tornano immobili e svuotate nei manichini a farsi ammirare e portare via in un’improbabile valigia fuori luogo e fuori tempo.

Una lacrima di nostalgia corre nel solco che squaglia il trucco nero degli occhi e sbava di baci dati e ricevuti un rossetto troppo vermiglio.

All’improvviso il sole esce dall’acqua.

Quando è già alto nella volta della laguna, frotte di gente, scapigliata, sudata, dall’incedere stanco e sbracato sbarca a Venezia, si addentra nelle piazze, nelle chiese, nei palazzi, ingorda di souvenir turistici: Venezia nella bolla di neve, nelle calamite infantili, nelle cineserie mal copiate, nei finti vetri dei finti maestri di una finta Murano.

I traghetti, stipati di umanità, sono cristallizzati nella schiuma d’acqua e nella ruggine paludosa e salmastra.

Qui non si parla italiano, ma inglese, lingua internazionale per la città più nota.

Ma Venezia è anche questo, con la sua allegorica esistenza di andata e ritorno tra ieri e oggi: da Arlecchino e Colombina, servitori di due padroni, al servizio di interessi finanziari che non fanno il suo bene, da una culla per l’arte anche contemporanea di cui è lo sfondo ideale antitetico ai mostri pacchiani dei transatlantici da crociera.

E con l’acqua tutto scorre, è eternamente ora, è eternamente divenire… finché dura, finché Venezia sopravviverà a se stessa.

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