articolo pubblicato su IUA n° 5, anno X, Maggio 2023
Sant’Elia a Cagliari, era un piccolo villaggio di pescatori grazioso, con caratteristiche proprie, distinte dal resto della città. Si trova a sud di Cagliari, abbellito dalla penisola del suo colle e delle sue scogliere che si estendono fino a Calamosca con un bel faro che le domina. Una deliziosa immagine per chi viene dal mare, dove il Borgo si affaccia interamente. Nel corso della storia il suo colle ebbe insediamenti fenici, punici e romani importanti. Ci son rimasti materiali ceramici dell’età punica, resti di un tempio di culto della dea fenicia Astarte e di cisterne puniche e romane, oltre ad essere stato insediato da accampamenti militari, pisani, spagnoli, sabaudi. Il suo nome Elia risale al IV secolo quando sul colle viveva un eremita e anacoreta sardo, chiamato Elia. Nel periodo di Diocleziano venne reso martire e sepolto sullo stesso colle che prese il suo nome. Oggi i suoi resti sono conservati nella Cripta dei Martiri della Cattedrale di Cagliari. Quando nel XVI sec.la congregazione Carmelitana si stabilì sul promontorio di S. Elia Anacoreta, il promontorio fu intitolato a S. Elia Profeta, personaggio biblico e ispiratore dello stesso ordine, per cui il culto per il profeta Elia soppiantò quello di Elia eremita sardo. Sotto il bosco di agavi del colle, si possono ancora trovare i resti del primo impianto della chiesa omonima, impianto documentato nel 1089 in un atto ritrovato nell’Archivio di Stato di Cagliari. I Carmelitani sono ancora presenti a Cagliari presso la Piazza del Carmine nel quartiere di Stampace. Le strade strette del Borgo, contornano palazzine di svariate tonalità e tutto il paesaggio odora di salsedine e dei prodotti del mare, complice la continua brezza marina e il mare fecondo, contenitore di prodotti commestibili che alla brace o fritti ne impregnano l’aria. I vicoli vanno a sfociare nella piazza centrale, in posizione fronte al mare, dove di lato sorge un Lazzaretto che nel 1600 accolse diversi ricoverati. Il Lazzaretto, per le epidemie aveva un’ottima posizione: lontano dalla città e vicino al mare. Ed epidemie sin dal 1600 a Cagliari ce ne sono state: peste, vaiolo, colera, lebbra. Il Lazzaretto fu ampliato nel 1835 con un chiostro a cielo aperto che serviva come magazzino per remi e reti dei pescatori. Oggi, dopo il restauro dell’architetto veneziano Andrea De Eccher è diventato un centro polifunzionale comunale vivace, dove si alterna l’arte e la cultura. Nel periodo estivo, l’antistante piazzale, si anima per la sagra del pesce di S. Elia. Dove prima esistevano paludi, ora le vecchie case rinfrescate si accompagnano, con la chiesa posta al centro degli abitati, al tempo che va avanti e alle nuove famiglie, pur rimanendo sempre staccate dalla continuità urbana.
Nel secondo dopoguerra la città di Cagliari è ancora ferita dai bombardamenti, i quartieri sono ancora distrutti e si trovano baraccamenti dappertutto. Come in tutte le città europee Cagliari ha difficoltà a ricostruire ciò che è andato distrutto dalla guerra e allo stesso tempo pensare a una ripresa economica, stando in guardia dalle speculazioni immobiliari. In questa situazione critica, un gruppo di sfollati si insediò nella struttura del Lazzaretto, divenendo abili pescatori. Con la legge nazionale del 1949 INA-Casa, dal 1951 al 1956 venne su, la prima architettura di abitazioni popolari a cui in seguito si diede il nome di Borgo Vecchio. Si trattava di ottantacinque palazzine con cinquecentododici alloggi per quattrocentosettanta famiglie. Fu la prima periferia di Cagliari. Oltre ai senzatetto alloggiati provvisoriamente al Lazzaretto, vennero spostati dal centro di Cagliari, i tanti abitanti che non facevano parte del ceto medio borghese. Il borgo all’inizio era privo di servizi, di scuole, giardini e disconnesso dal centro.
Nel 1975 sorsero i primi palazzi che divennero emblema di problematicità e marginalità sociale: nasce il Favero al Borgo Nuovo. Quest’ultimo dista 700 m. dal Borgo Vecchio, per cui si evidenzia subito, dal punto di vista geografico spaziale e sociale, l’allontanamento dalle relazioni di vicinato, dato che queste nuove edilizie distanziano, anziché continuare e rendere vicino, ciò che si era già formato come unità identitaria di quartiere. Se prima il borgo era costituito da piccole case ora si estende in verticalità senza nessuna inclusione alla città. Inoltre le grandi caserme, lo stadio cittadino, i complessi sportivi, la fiera e l’asse mediano fanno da ostacolo urbano al rione, rendendolo ancora ad oggi “separato”. E questo aspetto, ha costituito, nel tempo, un distintivo discriminatorio di quartiere ghetto, emarginato dal centro città, quasi un Bronx che a percorrerlo, incute un certo timore con quei palazzi di grandi dimensioni orribili e “popolari”. Un grigio da cemento armato compatto e isolato che fa a botte con l’intensità del blu del suo mare e del suo cielo. Palazzoni eletti, di conseguenza, a simbolo dell’abbandono e dell’emarginazione. L’intero territorio si colloca fra le pendici del colle di Sant’ Ignazio a est, il mare a sud ovest, circondato da insediamenti militari e caserme, da palazzoni imponenti a nord-ovest e dall’asse mediano di scorrimento veloce a nord.
La sua vita quotidiana vivace, e il contesto naturale di grande bellezza, smorzano i nodi di un contesto sociale ed economico caratterizzato da alti tassi di disoccupazione, di reati, e bassa scolarizzazione che ha portato tanti Cagliaritani continentali e stranieri alla diffidenza verso il quartiere. E nonostante le dimensioni dei palazzi… Rimarrà per decenni una città invisibile dentro la città. Eppure la sua natura suggestiva con i suoi contrasti di colori, dal mare alle case, ai fiori di campo, al rosso dei suoi tramonti, non ne fa un luogo molto diverso da quelli toccati dal turismo sfrenato, e da altri luoghi, dove l’isolamento non è mai stato ghetto. Il quartiere fu reso tale, da tutto ciò che nei trascorsi anni, fu insensibilità politica, sociale e storica, stigmatizzandolo e negandogli per diverso tempo, la bellezza e la sua vita originaria dalla forte identità e dalla sentita appartenenza territoriale da parte di tutti i suoi abitanti.
La carenza di servizi educativi, ricreativi, sanitari ecc. rendeva S. Elia un continuo degrado dei suoi spazi, e oggi nonostante gli interventi migliorativi realizzati dal Comune, questi risultano ancora insufficienti a debellare quel senso di abbandono da parte delle istituzioni nei confronti di una comunità che è sempre stata compatta nell’esprimere bisogni e disagio sociale. Eppure vi è sempre una spinta che supera il pregiudizio e diventa scoperta, quando si cammina per il mercato rionale, sotto i porticati, nel piazzale, sul lungomare e dalle cucine del quartiere arrivano gli aromi e i sapori che da impasti dolci e salati, manipolati da mani femminili forti e agili, poi cotti, ad olfatti e papille gustative esigenti, trasformandosi in energie di quartiere e in meraviglia per qualsiasi visitatore.
Il porticciolo poi è il suo forte elemento identitario. Il chiaro richiamo alla pesca, da sempre praticata, è un nodo del cuore che non si può sciogliere. Attività economica, risorsa e sussistenza. Forza, protezione e patrimonio. Dalla piccola spiaggia di Don Alfonso è possibile raggiungere “Lo scoglio”, piccola isoletta distante un centinaio di metri dalla spiaggia. I ragazzi di S. Elia lo raggiungono a nuoto per esibirsi in gare di tuffi.. Non lontano dalla spiaggia di Don Alfonso si trova una bella cala, Cala di Bernat, o del Prezzemolo dall’omonima Torre che la sovrasta, di undici metri di altezza che risale alla seconda metà del Cinquecento. Ebbe un ruolo fondamentale nel 1793, durante la cacciata dei Francesi di Napoleone dalle coste meridionali dell’isola. Il Castello di S.Elia è una fortezza sabauda che sorge sul Colle di Sant’Ignazio. Fu edificato nel 1792 nell’attesa dei galeoni francesi, anche se i francesi arrivarono prima che i lavori si compissero, per cui l’avamposto militare fu spostato più avanti, alla torre del Prezzemolo. Partecipazione, comitati di quartiere e lotta son stati per diversi anni, i nuovi linguaggi per far sì che S. Elia acquistasse decoro e dignità.
Capifamiglia, lavoratori, studenti cattolici impegnati attorno alla figura di Don Vasco Paradisi a lottare per la casa, i servizi, i trasporti, l’istruzione, con alle spalle la minaccia costante della demolizione di case per ricollocarle in altri quartieri e rinnovando quel senso di abbandono per tutti. Come non ricordare ciò che ha rappresentato e operato concretamente Don Vasco Paradisi per S. Elia? Determinante anche la partecipazione femminile unita in associazione, con intenti organizzativi miranti a iniziative sociali e culturali. Lotte per il diritto alla casa, proteste, manifestazioni, picchetti fino al blocco dell’esecuzione degli sfratti, tavoli istituzionali di confronto attivo sempre mirato a temi riguardanti il lavoro e le case. Le donne hanno saputo mediare tra gli abitanti e le istituzioni interpellate. Ma quanti voti ancora e quante promesse a memoria di quei poveri pescatori che nella loro povertà seppero mantenere unità e senso di appartenenza e che ancora nei figli e nipoti non vivono la soddisfazione di avere una piena riqualificazione di quartiere? Quello spirito originario e comunitario volto al bene di tutti “si vela” ancora, non supportato da volontà politiche forti e determinate, forse imbrigliate ancora, dentro reti da pesca che non portano più cibo in questo “altrove” dove i delfini poco distanti giocano e gli uomini che li stanno a guardare angosciano nel mal di vivere.
Anche la pesca e il pescatore degli anni Sessanta son diventati solo ricordi. Uscivano dal canaletto barche e pescatori accompagnati da qualche figlio e stavano fuori diversi giorni, dormendo nelle spiagge con i cuscini di poseidonia sotto il capo e due coperte. Un bastone reggeva la barca capovolta, allestita a riparo. Soffrivano il freddo e dormivano poco, i pescatori! Pescavano verso Villasimius, Costa Rei, Porto Corallo scambiando a volte il loro pescato con il pane, pescavano ogni giorno. Non essendoci il freezer, il pesce si doveva vendere in giornata. Si pescava con metodi e tecniche che oggi ormai sono illegali perché desertificano i fondali. Solo adesso che i mari hanno perso la loro abbondanza ittica ci si è resi conto dei danni apportati da un certo tipo di pesca, dalle plastiche e dall’inquinamento.
Però i bei ricordi del rientro in bicicletta dalle sedi di pesca, e stare tutti insieme ad arrostire e bere vino, magari dopo una scazzottata senza rancore, così, perché si è adulti e ci si misura anche in forza fisica. I cortili retrostanti delle case sempre animati nel lavorare le reti. Anche le donne, si coinvolgevano. Il rumore del cordame si sentiva in ogni casa. Tutti i pescatori si spostavano di casa in casa per rassettare le reti. Il sacrificio di una vita! Ma tra risa e chiacchiere la vita scorreva condivisa, pur con mani nerborute e segnate dal duro lavoro per preparare reti da duecento maglie da cucire, mentre il sale intrappolato, spaccava le dita. Tutti poveri, ma tutti uniti. Qualcuno rubava dai market o dai negozi per ridistribuire ai suoi compagni ed era benvoluto da tutti. Ora il pescatore ha i pescherecci di quattordici metri e oltre, magari con le reti cinesi, ed è tutta un’altra storia. Tutto è un po’ più semplice. Sant’Elia ha un mercato all’aperto, nel secondo dopo guerra la comunità del Vecchio Borgo che viveva di pesca, le famiglie che aumentavano e si allargavano, cercarono un luogo di scambio e commercio che esiste a tutt’oggi e che diventa sempre più mercato multiculturale, con l’esposizione di svariati generi alimentari e non solo di pesca.
Il Comune è intervenuto positivamente per il polo culturale del Lazzaretto, il quartiere ha un Isola ecologica, centro di raccolta rifiuti, qualche servizio sportivo e un bel campo di calcio, ha una cooperativa sociale, la farmacia, bar e ristoranti, il mercato civico, scuole, un ufficio Inps per la previdenza, un centro per l’impiego, un parco giochi, e bus che lo collegano al centro città. Ma per la riqualificazione del degrado, per le politiche sociali e nuove forme di aggregazione c’è ancora tanto da fare: i tanti progetti non sono andati avanti. Sant’Elia ha sete di essere abbracciata da un unico progetto cittadino che possa includerla come un unico spazio urbano alla città metropolitana di Cagliari e salvare ancora tanti giovani dalla droga e dal difficile rapporto con la legalità, di contro la forza vitale del rione in cui sono cresciuti e dell’anima resiliente che ancora lo sostiene. Per me che sono Cagliaritana da diverse generazioni, il paesaggio di barche, pescatori e porti d’attracco, ha costituito sin dall’infanzia un polo attrattivo e un po’ magico. Ricordo i racconti familiari di mia madre, quando ricordava di suo padre ferroviere (nonno Efisio) che nei momenti liberi usciva con la sua barca, a pescare. Ha avuto diverse barche da pesca il mio nonno, le più recenti denominate “Conte rosso” e “Conte verde”, la sua era una vera passione per il mare e la piccola pesca. Mia nonna Carmela affacciandosi alla finestra seguiva il suo rientro dal mare, accompagnando questa sua premura all’ansia e al timore quando il mare si agitava e le condizioni marittime diventavano un po’ avverse. Ma il suo rivolgersi alla Madonna del Carmelo (dal Monte Carmelo della Galilea occidentale che significa Giardino di Dio), in tali circostanze critiche, faceva in modo di placare l’agitazione dell’animo e riportare il mio caro nonno ai suoi sette figli di cui mia madre era la maggiore.
Ricordo sempre, in tutta l’infanzia e prima adolescenza che nel cambio della biancheria pulita, nelle maglie e canottiere vi era sempre cucito un piccolo scapolare: era quello della Madonna del Carmelo di cui mia madre aveva ereditato la devozione, affidando la famiglia alla sua protezione. Per cui il “Porto” di Cagliari ha sempre rappresentato per me “il luogo” del rientro a casa. Il mare, quindi, specie in un’isola, rappresenta cultura: di risorse, di cose come possono essere gli equipaggiamenti della pesca, di persone, di saperi speciali, ereditati dall’esperienza e dalla tradizione. Cose e uomini raccontano, come a S. Elia, le loro storie del quotidiano e del loro passato. In Sardegna i pescatori non sono tantissimi, per la storia stessa che ingarbugliandosi, non ha dato slancio alla pesca. Le nostre coste son state insalubri per la malaria, pericolose per i pirati barbareschi e per la scarsa presenza demografica lungo le coste (discorso a parte la pesca del corallo e la pesca del tonno).
Ma gli approdi riparati e la presenza di secche pescose, come nel caso di S.Elia, han permesso sino a tempi recenti, la piena frequentazione del mare, ricavandone tutte le sue risorse. Ricci, cozze, polpi, sardelle, zerri, murene alici, muggini, gattucci, orate ecc. pescato anche con le nasse, per un minimo di sopravvivenza e di reddito. La pesca… con i suoi tempi. Un tempo buono per andare per mare, un tempo cattivo per il lavoro a terra per preparare le attrezzature, comprese le nasse. In mare s’impara… In mare si cresce. Pescatori con pescherecci e pescatori con piccole barche come i gozzi differenziano lo strato sociale. Ma i tanti vissuti sono densi, carichi di profondi significati: formano un vero e proprio patrimonio di conoscenze. Eppure “i luoghi della pesca” sopravvivono oggi a fatica. Si è proiettati su tecniche moderne per maggiormente predare… e super sfruttare le risorse ittiche. I Porti sempre più turistici, diventano i “non luoghi della pesca” perdendo identità importanti e storiche per omologarsi a tutto ciò che storia non è più.
Bibliografia:
Gabriella Mondardini Pesca e Pescatori in Sardegna Milano 1997
Guide Non Turismo Sant’ Elia Venezia 2020
Webdoc.Unica.it
Immagini
Vistanet; digital library.
Foto personali di Maria Paola Romagnino
Cagliari: Sant’Elia, borgo di pescatori by L'Italia, l'Uomo, l'Ambiente is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License.