Masua, Iglesias, Sardegna - Fotografia di Alberto Petelli © Aprile 2010
Foto 1 – Lavatoio di Nebida – Fonte: Sulcis Sardegna Polis

Sin dal Neolitico, per arrivare sino al periodo odierno, le miniere sparse in più punti del territorio sardo, son state un’influenza notevole sulla storia economico sociale dell’Isola. Ossidiana, rame, piombo, ferro, argento, antimonio, zinco son stati piani di sviluppo locale ma anche pretesti per attivare sull’Isola sbarchi di invasori provenienti da più parti: Fenici, Cartaginesi, Romani, Vandali, Bizantini, Genovesi, Pisani, Spagnoli e Piemontesi, tutti a sfruttare le risorse della Sardegna a vantaggio della loro economia egemonica. Ma anche vantaggio per i Sardi sospinti a raggiungere orizzonti più aperti, confronti e scambi specie nelle aree Mediterranee. Cultura, tradizioni, civiltà, vicende storiche e varie commistioni per secoli, hanno forgiato il carattere e il profondo spirito identitario sardo. Questo complesso crocevia di popoli, tra oppressioni e sfruttamento da una parte, dall’altra, invece, conferme ed elevazione di valori in fermento, radicati in profondità in tutti i Sardi con spirito di tolleranza e libertà di espressione sia di fede religiosa, politica o sociale. La legislazione mineraria partita da Iglesias (Villa di Chiesa nel XIII sec.) fu una guida per i tanti paesi europei più progrediti e promosse solidarietà tra lavoratori, permise nel tempo di costruire una classe operaia forte, specie tra i minatori e far sì, d’anteporre poi, sistemi di resistenza al fascismo e a qualsiasi dittatura, puntando quindi a una rinascita che fosse veramente democrazia.
Nel XIX secolo l’industria mineraria raggiunse il suo apice. Con la legge mineraria del 1848 venne estesa all’Isola, la legislazione già vigente dal 1840 al resto del Continente. Confermata ancora nel 1859, distinguerà la proprietà del suolo da quella del sottosuolo. Svincolate quindi le concessioni minerarie dalle richieste dei proprietari terrieri, ingenti capitali affluirono dall’Europa nel bacino minerario sardo, in maniera esponenziale. Anche se, non cessarono le polemiche fra i proprietari terrieri e gli industriali che portarono avanti le ragioni dell’industrialismo, sostenute anche dalla politica italiana. Nel 1850 iniziò la prima estrazione di carbone. Nel 1863 la scoperta della nitroglicerina ad opera di Alfred Nobel portò alla dinamite lungamente usata. Gli insediamenti industriali ebbero sin dai primi dieci anni (1860-1870) incremento produttivo stabile. Migliaia di minatori lavoravano duramente e in condizioni pericolose e insalubri. Le zone minerarie vennero colpite dalla malaria che mieté diverse vittime tra gli operai minatori provenienti per la maggior parte dalle zone interne del Campidano delle Barbagie e non solo. La scoperta nel 1864 di ingenti giacimenti di calamina (miscuglio di minerali: ossidi di ferro e zinco, idrozincite) provocò la crescita della produzione di zinco e piombo. L’attività estrattiva divenne lucrosa, tanto più da richiamare diverse società europee specialiste nel campo, società belghe, francesi, inglesi, e poi le italiane “Monteponi” e “Montevecchio” e tante altre aziende, tutte con connotati colonialistici sullo sfruttamento minerario sardo, dal momento che il minerale dopo l’estrazione veniva totalmente esportato senza alcun reinvestimento locale.
Furono costruite strade, agibili punti d’imbarco, canalizzazione di acque per produrre forza motrice, ferrovie. Erano oltremodo tempi in cui si aveva difficoltà a trovare in loco manodopera qualificata, le situazioni economiche familiari risultavano precarie e pressate dal fisco.  Nel 1871 il deputato Quintino Sella pubblicò una relazione che riportava la situazione mineraria sarda. Dopo il 1887, a seguito della guerra commerciale tra Italia e Francia, contadini e braccianti si allontanarono dalle campagne e molti di loro si riversarono, appunto, nel settore minerario per un’occupazione stabile e remunerata. A fronte di ciò, mancava nel territorio sardo, di tradizione contadina e pastorale, la competenza tecnica e la cultura industriale. Un gran numero di lavoratori locali venne impiegato nell’attività di fatica non specializzata. Nei piazzali antistanti le miniere avveniva la cernita dei materiali puri da quelli misti, eseguita a mano da operai cernitori, la cernita meccanica avveniva selezionando nelle laverie i materiali più poveri. I materiali venivano poi immagazzinati nei porti e negli scali ferroviari, imbarcati in grandi piroscafi per essere trasportati nelle fonderie metallurgiche italiane e del Nord Europa. Si affidava a toscani piemontesi e bergamaschi il lavoro che richiedeva più responsabilità ed esperienza e questo comportava un divario di salari tra gli stessi operai che sottostavano a gerarchie umilianti, sia dal punto di vista salariale che sociale (modo di vestire, di alimentarsi, impiego del tempo libero, qualità di abitazioni), il tutto aggravato dalla filantropia del padronato minerario che creava differenze sociali, oltre a quelle delle tecniche lavorative. Fu nel 1872 che Quintino Sella ammorbidì un po’ la pesante situazione istituendo una scuola mineraria per tecnici di miniera e operai specializzati.
Agli inizi del 1900 la situazione mineraria era gravissima per il bassissimo reddito a differenza delle altre regioni italiane. Le 856 lire sarde di contro le 3716 della Liguria, le 2520 della Lombardia, le 1406 della Basilicata. Iniziarono le proteste operaie per l’aumento dei salari e per la sicurezza sul lavoro. Nel settembre 1904, noto come l’eccidio di Buggerru, un consistente sciopero di minatori a causa della riduzione di tempo nella pausa tra l’orario del mattino e quello pomeridiano, esattamente il 4 settembre, mentre i minatori si trovavano impegnati nelle trattative sindacali, i dirigenti della ditta chiamarono l’esercito che, intervenendo, fece fuoco sugli operai uccidendone tre e causando un grosso numero di feriti.
Un increscioso aspetto della realtà mineraria che oltre alle donne, impiegate per la cernita e il lavaggio del minerale sul posto, vennero impiegati ragazzi e bambini tutti al di sotto dei quindici anni. Queste mansioni venivano svolte all’esterno della miniera.
Il lavoro di miniera è una storia di uomini, donne e bambini ripiegati a un lavoro duro e difficile per guadagnarsi da vivere. A quale prezzo? Già dal suono della sirena che annunciava l’ingresso in miniera, tutti attrezzati di lampada ad acetilene, dondolanti, mettevano in conto che avrebbe potuto essere l’ultimo giorno lavorativo. Il pericolo costante della caduta massi o del crollo delle gallerie, o le conseguenze delle polveri respirate, o le cadute nel fornello (silos in cui veniva rovesciato il materiale), le esplosioni, l’investimento dei vagoni, facevano sì, che il rischio si accompagnasse a quel lavoro quotidiano, svolto per dieci dodici ore al giorno, al di fuori del tempo, perché nel buio, e in mancanza di luce naturale, impossibile contare le ore trascorse.
Si scavava… si sopportavano le vibrazioni delle perforatrici, il frastuono delle macchine e si spingevano pesanti vagoni…La silicosi era la malattia professionale ricorrente poi si associavano bronchiti, tracoma, enfisema polmonare, scabbia, lesioni oculari, reumatismi e malaria. A cinquant’anni si era già inabili al lavoro, l’attività lavorativa durava in media vent’anni.
Dopo i primi trent’anni del 1900 la situazione migliorò quando furono apportati più servizi per tutti.
I nuovi villaggi minerari, costruiti negli anni, permisero a molti di ricostruire la propria umanità e coscienza di vita, deturpata dal troppo tempo trascorso sotto le viscere terrestri. Poi l’esaurimento dei siti, la chiusura delle miniere ebbero un fortissimo impatto negativo sugli abitanti dei villaggi che si sentirono disgregati dal contesto sociale, territoriale e lavorativo. Arrestata la produzione mineraria i siti subirono una forma di degrado che sfociò nell’oblio.
Il periodo bellico, soprattutto, mise in difficoltà le società operanti in Sardegna ma collegate al mercato europeo. Infatti, nel 1914 con l’occupazione del Belgio si chiudeva lo sbocco per i minerali di zinco. Con lo scoppio della guerra, le società diminuirono la produzione, si interruppero i cantieri e si licenziò la mano d’opera. Furono licenziati 18000 operai. Vennero però intensificate le miniere di lignite di Bacu Abis e quelle della Nurra per il ferro. Il conflitto portò di nuovo alla domanda di piombo zinco e carbone e ci fu un po’ di ripresa, ma nel 1921 ci fu ancora il crollo del piombo e dello zinco e quindi dell’economia mineraria. Molti operai andarono a combattere e la richiesta di mano d’opera superò l’offerta. L’11 maggio 1920 ad Iglesias manifestarono 2000 minatori: ci furono 5 morti. Le lotte sindacali operaie e i problemi generati dalla crisi post-bellica portarono il 1° luglio 1922 allo sciopero generale delle miniere. Nel 1933 il governo, per contrastare la crisi, varò l’IRI si ottennero meno ore lavorative e il divieto di costruire nuovi impianti senza autorizzazione governativa. Nel 1934 con il” piano autarchico” aumentò la produzione mineraria, per volere del regime fascista.
Infatti, dopo la Prima Guerra Mondiale si avrà un aumento della meccanizzazione e del ritmo di produzione, anche il rendimento degli operai aumentò. Si trovò un modello organizzativo più razionale apportando miglioramenti ai salari. Ma di contro la maggior meccanizzazione, in rapporto ai tempi di produzione, rendeva l’operaio un automa, sottoponendo il suo corpo a una rigida disciplina. Siamo in pieno regime e il corpo viene manipolato proprio perché funzionale alla produzione.
“Il corpo umano entra in un ingranaggio di potere che lo fruga lo disarticola e lo ricompone, un “anatomia” politica che è anche una “meccanica di potere” … Far presa sui corpi degli altri perché facciano ciò che il potere desidera…secondo la rapidità e l’efficacia che esso determina. La disciplina fabbrica così corpi sottomessi ed esercitati, corpi “docili”. La disciplina aumenta le forze del corpo (in termini economici di utilità) e diminuisce queste stesse forze (in termini politici di obbedienza)” (Michel Foucault).
Nel 1936 fu realizzata una città operaia: Carbonia. Nuova città industriale costruita in meno di un anno su un territorio vicino alla miniera e al Porto di Portovesme. Venne ufficialmente inaugurata dal capo del Governo Benito Mussolini nel 1938. Nel 1940 l’Italia entrò in guerra e tutta la produzione estrattiva sarda rispondeva all’industria bellica. La produzione si bloccò nel ’43 per poi riprendere lentamente sino al 1950 quando le miniere sarde contribuirono alla ricostruzione industriale dell’Italia riuscendo ad evadere le richieste metallifere e del settore carbonifero fino a che, anche la crisi del settore carbonifero coinvolse la maggior parte delle miniere sarde. Tra il 1950 e il 1965, 15000 lavoratori minerari abbandonarono la città di Carbonia. Negli anni ’70 in Europa ci fu la crisi irreversibile dell’industria mineraria, e negli anni ‘80 ‘90 le miniere sarde chiusero una dopo l’altra, vuoi per la tipologia del carbone del Sulcis, vuoi per i giacimenti molto più piccoli rispetto a quelli di altri continenti, vuoi per i metalli più economici che provenivano dal “Terzo mondo”, vuoi per i macchinari ormai superati, vuoi ancora per la mancanza di investimenti e vuoi per la grande quantità d’acqua nel sottosuolo dell’Iglesiente che aumentava i costi d’estrazione. Se prima dell’industria estrattiva, specie nel Sulcis Iglesiente, si aveva un tipo di habitat agro pastorale molto diffuso (medaus, furriadroxus) nel tempo industriale il paesaggio cambia: pozzi minerari, palazzi della direzione edifici vari, laverie, impianti di estrazione e lavorazione, scavi a cielo aperto, imbocchi di gallerie, insomma sorgono musei a cielo aperto testimonianti una vita trascorsa, di sofferenza ma anche di solidarietà.
Rimane questa archeologia industriale mineraria patrimonio ingegneristico e antropologico da recuperare e tenere a memoria. Il Parco Geominerario Storico Ambientale della Sardegna oggi è preposto a ciò: patrimonializzazione e bonifica dei siti minerari onde arginare l’inquinamento ambientale e promuovere una maggior fruizione turistica. Quindi si punta al recupero del patrimonio storico antropologico e di archeologia industriale come rigenerazione di storie in parte rimosse, di fatica e sudore, ma soprattutto di sfruttamento non solo del sottosuolo, ma di Persone. La patrimonializzazione garantirebbe il bene universale il bene di tutti, bene individuale e collettivo, in quanto tale difeso, perché storia sociale, di archeologia industriale, di architettura e urbanistica dentro la memoria storica dei saperi. Patrimonializzazione inoltre, salvaguardia del territorio paesaggistico ambientale, storico culturale e tecnico scientifico, può dare risposte alla disoccupazione e assicurare modelli di sviluppo sostenibili, compatibili con i valori da conservare. Nei 38000 ettari di Parco son state individuate aree di cui quelle del Sulcis Iglesiente Guspinese risultano le più rappresentative. Falesie, dune di sabbia, cavità carsiche, foreste e l’azzurro del mare fanno da sfondo a quasi tutte le aree.

L’Argentiera

Foto 2 – L’Argentiera – Fonte: Sardegna cultura

Villaggio minerario semi nascosto e lontano dal centro abitato. Contornato da una bella spiaggia e dall’incanto del suo mare. Dalla Bellezza al disincanto il passo è breve, quando il centro di questo villaggio minerario si porta con sé storie di sudore e soprusi. La spiaggia ha riflessi argentei perché in questo luogo si cercava l’argento. Pietra e legno sono i materiali del villaggio arroccato sino al costone del monte sovrastante la spiaggia. Siamo nel Mare del Nord Sardegna in provincia di Sassari. La miniera in stato d’abbandono crea un’atmosfera misteriosa ferma nel tempo, e i vecchi edifici si confondono con nuovi edifici in una coesistenza armoniosa tra pareti a strapiombo sul mare. Le montagne di scorie estrattive risultano quasi addolcite dallo spettacolo delle sue baie, accessibili solo da sentieri che si snodano in mezzo alla natura. Nel lontano 1968 questo villaggio ha fatto da sfondo nel film “La scogliera dei desideri” i cui attori protagonisti son stati Richard Burton ed Elisabeth Taylor. Oggi il sito è meta di percorsi da trekking che incantano i protagonisti di questo passaggio, dentro la storia e la bellezza. Oggi può contare tanto, un turismo sostenibile che si trattenga e abbracci questi luoghi senza tempo, in modo che continuino a raccontare la propria storia.

Montevecchio

Foto 3 – Montevecchio – Fonte: Vistanet

Non si può non pensare a persone sommerse dal buio giù per i pozzi a scavare… scavare…per il piombo e per lo zinco. Mentre su in superficie i padroni, ingegneri, medici, dirigenti, abitavano nel lusso, ravvicinati agli operai che vivevano una vita povera. Le loro umili abitazioni operaie schiaffeggiate dai sontuosi palazzi direzionali. Un grande villaggio con ospedale, piazza, scuola, chiesa e cimitero. Montevecchio con le sue miniere ha contornato il paesaggio di Arbus e Guspini (Medio Campidano). Ciò che rimane ancora, concretizza questa storia. Il sito ebbe inizio nel 1848 quando re Carlo Alberto diede autorizzazione allo sfruttamento a Giovanni Antonio Sanna. L’apice estrattiva l’abbiamo nel 1865 con 1100 operai e più avanti si arrivò a 6000 impiegati. Si guadagnò il titolo di miniera più importante del Regno d’ Italia. I suoi labirinti alimentarono l’economia locale ma fu anche modello industriale italiano.

Tutta l’area era divisa in due settori: di Ponente e di Levante separati dai monti. Nel settore di Ponente si trovano gli edifici più antichi come il Palazzo della Direzione in stile neoclassico costruito nel 1870, conteneva gli uffici, la casa del Direttore (vedi la foto 3bis a sinistra, Fonte: ANSA), la Chiesa di Santa Barbara in stile neogotico, cappella della miniera. Vi si trovavano anche cameroni a schiera per gli operai senza famiglia. Nel settore di Levante si trovano le laverie, gli impianti di servizio, cumuli di sterili, i castelli ottocenteschi del Pozzo San Giovanni nel cantiere di Piccalinna,   il pozzo di Sant’ Antonio con forme neomedievali, il pozzo Sartori in cemento armato. Anche qui si trovano i cameroni a schiera per gli scapoli, completati ognuno da un camino e i villaggi per le famiglie, tutti ormai abbandonati.

Dopo anni di crisi il 1991 pose fine alla sua attività estrattiva. Edifici vuoti e il silenzio delle ciminiere è il volto dell’abbandono ma non della memoria. Grazie al Parco Geominerario vi sono percorsi guidati, si può ammirare la ricca fauna e flora che si è sviluppata nel territorio, grazie alla riconversione ambientale, cosicché Montevecchio possa essere polo di interesse naturalistico oltre che storico e culturale.

Sos Enattos

Foto 4 – Sos Enattos – Fonte: Sardegna Turismo

Miniera prima sfruttata per la steatite poi per il piombo, l’argento e lo zinco. Si trova in territorio di Lula – Nuoro circondata da boschi di tassi, lecci, ginepri e macchia mediterranea, sormontata dal Monte Albo. Chiuse la sua attività nel 1996, ma pozzi laverie e altre strutture son state ben conservate. (Foto 4b a sinistra: Sos Enattos)

Galleria Henry, Buggerru

Foto 5 Galleria Henry Buggerru. Fonte: Sardegna turismo

Anche la Galleria Henry ha reso più intensa l’estrazione specie per piombo e zinco e il trasporto del minerale: una strada ferrata dentro la falesia! Per far sì che passasse una locomotiva a vapore dalla miniera direttamente verso il mare. Una ramificazione labirintica con tanti passaggi scolpiti nella roccia e finestre che affacciano sul mare di Buggerru. Siamo nella costa sudoccidentale con panorami mozzafiato e a strapiombo sul mare. La Galleria messa in sicurezza, la si può visitare a bordo di un trenino elettrico seguendo le antiche rotaie della locomotiva a vapore.

A fine visita si può percorrere a piedi la vecchia galleria “pedonale” che veniva percorsa dai muli da soma. Gli scavi di questa Galleria Henry risalgono alla fine del XIX sec. e fu un’opera d’avanguardia paragonabile alla celebre galleria di Porto Flavia. Il nome Henry deriva dal dirigente francese della società Anonime des Mines de Malfidano che deteneva i diritti di sfruttamento e che la realizzò. (Foto 5b galleria Henry Buggerru. Fonte: Sardegna turismo)

Foto 5c Galleria Henry Fonte: Sardegna turismo

Serbariu e il Museo del Carbone

Foto 6 Serbariu. Fonte: Sardegna turismo

Serbariu possiede il Museo del carbone che fa rivivere i ritmi dell’attività sotterranea. Questo giacimento fu attivo dal 1937 al 1964 contribuì al rifornimento delle risorse energetiche per il Sulcis e per l’Italia. Il bacino carbonifero aveva un’estensione di 33 ettari con pozzi estrattivi, oltre 100 chilometri di gallerie con una profondità sino a 179 metri. Si accolsero lavoratori provenienti da più parti d’Italia. Nel 1938 fu fondata Carbonia appositamente, per ospitare i 16000 lavoratori che si stabilirono localmente. Questo museo del carbone ha aperto al pubblico nel 2006: rappresenta un viaggio nella storia. Si snoda lungo il percorso che i minatori dovevano fare giorno dopo giorno. Dalla lampisteria con la preziosa collezione di lampade da miniera, alla galleria sotterranea, passando per il pozzo di Santa Barbara e la sala macchine e poi ancora esposizioni di attrezzi da lavoro, oggetti d’uso quotidiano, fotografie d’epoca, documenti e filmati che fanno immergere nella vita reale dei minatori. Videointerviste a chi ha lavorato in loco, danno voce a tutto ciò che è stato sofferenza e dramma per molti.

Lungo il cammino del Museo si possono leggere le parole di Mussolini: “Coloro che io preferisco son quelli che lavorano duro, secco, sodo, in obbedienza, e preferibilmente, in silenzio.” Carbonia è nata sotto il fascismo e gli operai lavoravano in condizioni durissime e pericolose ricattati dal licenziamento e dalla repressione. Sui minatori ingiustizie e violenze subite. Oltre l’archeologia, oltre l’ingegneria oltre l’organizzazione dirigenziale delle miniere, ruotava un contesto umano che non si può dimenticare e che ha dato, appunto, fisionomia all’economia e alla struttura sociale di quel tempo, in Sardegna. Ogni giorno una sfida ogni giorno più solidarietà ma anche perdite di vite umane. (Foto 6b Serbariu. Fonte: Sardegna turismo)

Funtana Raminosa

Foto 7 Funtana Raminosa. Fonte: Sardegna turismo

È una miniera lontana dal mare, contrariamente a tantissime altre, cosa che sicuramente causava qualche difficoltà nel far arrivare il minerale all’imbarco. Si trova in territorio di Gadoni tra Belvì e Seui in piena Barbagia e diversamente da altre, come fa supporre il nome, produceva rame in gran quantità. Fu sfruttata sin dall’epoca neolitica e nuragica e poi a seguire…La gran produzione estrattiva la mise nelle mire di diverse compagnie specie quelle statunitensi, sino all’abbandono nel 1983. Diversi ex minatori oggi, fanno da guida alla miniera. Vero monumento di storia, di economia e di identità locale. È uno dei pochi giacimenti di rame in Europa ed è un gioiello. Si estende per 150 km quadrati: un pozzo di rame che è un vero museo a cielo aperto e sotterraneo. Possiede macchinari all’avanguardia rispetto al periodo di attività e sono ben conservati. Oltre alla metallurgia questo museo permette di risalire alla preistoria e a tutte le tracce storiche lasciate dai vari popoli del Mediterraneo. Infatti, i ritrovamenti archeologici si arricchiscono di vari utensili, lingotti e anche di resti di un minatore risalenti all’età imperiale romana. Due delle 150 gallerie, la galleria Fenicia e Romana sono testimonianza vera e tangibile di questa eredità storica.

Masua e Porto Flavia

Foto 8 Porto Flavia Parco Geominerario

Scavata nella roccia dai minatori: un tunnel che emerge a metà di uno strapiombo con vista mozzafiato sul faraglione di Pan di zucchero. Monumento naturale, 132 metri emergenti dal mare e davanti la miniera che sovrasta Masua (Iglesias), ingegneria degli anni ’20 che rivoluzionò il trasporto dei materiali verso le fonderie europee. Questo tunnel lungo 600 metri fu realizzato tra il 1922 e il 1924. Porto Flavia offriva una via diretta per l’imbarco sulle navi, riducendo tempi e costi di trasporto grazie a due gallerie sovrapposte, affacciantesi entrambe sul mare. I suoi silos che si trovavano nella galleria superiore, contenevano fino a 10000 tonnellate di materiale, mentre nella galleria inferiore, si trovava un nastro trasportatore e un braccio mobile che consentiva l’imbarco diretto di piombo e zinco sulle navi. L’ingegnere fu Cesare Vecelli che dedicò la meravigliosa struttura a sua figlia Flavia, nome che si rileva sulla torretta in stile medievale all’ingresso del tunnel. L’attività estrattiva di Masua ebbe inizio nel XIX sec. Con oltre 700 lavoratori. Toccò il suo apice con la società belga Vieille Montagne nel 1922 ma dagli anni ’30 la miniera iniziò il suo declino.

Foto 8b Porto Flavia Parco Geominerario

Il villaggio minerario di Masua si trova sui vari livelli rocciosi di Punta Cortis con scuola, ospedale, chiesa, laboratori e case. Il museo contiene settanta macchine da miniera accompagnate da attrezzature varie e utensili minerari testimoni di intensa storia industriale. Tutto racconta di una vita di pregi e di dolore che non può essere ricoperta dalle polveri e dall’oblio perché riguarda la vita di tanti Sardi che si appellano al rispetto della memoria…
Nel 1955 una delegazione di scrittori venne in visita alle miniere carbonifere. Tra questi scrittori vi era anche Ungaretti che pronunciò questa frase: “L’UOMO NON È FATTO PER LAVORARE NELL’INFERNO
Completo con la forte espressione dantesca: …. “E quanto a dir qual’ era è cosa dura esta selva selvaggia et aspra e forte, che nel pensier rinnova la paura! Tant’è amara che poco è più morte…”
Bibliografia: Francesco Manconi Le miniere e i minatori della Sardegna 1986 MI
www Sardegna turismo.it; www. Gallura.it

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CC BY-NC-ND 4.0 Le miniere sarde: storia di uomini e di archeologia mineraria by L'Italia, l'Uomo, l'Ambiente is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License.