Articolo pubblicato su IUA n° 4 e 6, anno IX, Aprile 2022 & Giugno 2022
Sui colli compresi tra la Val di Greve e la Val di Pesa, la Badia a Passignano accoglie il visitatore con i suoi tesori artistici e storici. Sul percorso di antichissime strade è stata per secoli al centro della storia toscana; legata alla vita di San Giovanni Gualberto, ospita opere del Ghirlandaio e di Michelangelo, e la sua antica università ha avuto tra gli insegnanti Galileo Galilei. Con alcune visite, raccontate in questo e in un prossimo articolo, cercheremo di entrare in questo luogo per iniziare a scoprirne la storia e i beni artistici.
16 agosto 2013. È il giorno dopo Ferragosto, una bellissima giornata, mi alzo molto presto la mattina per fare un giro con la mountain bike: il percorso prevede di partire da Lamole – dove trascorro con la famiglia le vacanze estive – e arrivare alla Badia a Passignano. Da Lamole scendo fino in fondo alla profonda vallata del fiume Greve, andando a cercare l’antica strada verso Panzano: in pochi ormai conoscono il passaggio, oggi un sentiero tra i boschi di castagno percorribile in mountain bike o a piedi, che abbrevia il percorso tra le due località. Arrivo alla fine al crinale, alla fantastica strada bianca che si dirige dolcemente verso Panzano, tratto che fa parte della celebre manifestazione ciclistica dell’Eroica. Il panorama che mi circonda, tra Val di Greve e Val di Pesa, è mozzafiato: borghi, pievi, boschi, vigneti si dispiegano con i loro colori: è probabilmente uno dei percorsi ciclistici più belli al mondo. Dopo Panzano la strada continua percorrendo un tracciato antichissimo, dirigendosi verso Mercatale Val di Pesa seguendo i crinali delle colline. I boschi si alternano alle vigne, arrivo nella zona del Monte Fili, la deviazione per l’abbazia è vicina. Un cartello stradale mi indica la strada in lenta discesa per Passignano, che subito prendo.
L’abbazia mi appare in cima a un colle, come una visione diretta del medioevo. L’immagine che normalmente abbiamo di un edificio religioso è quella della chiesa, del monastero, del chiostro: qui appare come un castello, circondato da mura, da alte torri e da una fitta corona di cipressi. Mi fermo, faccio alcune fotografie, il paesaggio è senz’altro diverso dal previsto. Intendiamoci, alcune torri non sono originali, furono realizzate nella seconda metà del XIX secolo dal Conte polacco Maurizio Dzieduszycki che, divenuto proprietario del complesso, lo modificò a suo piacimento cambiandone in parte l’aspetto: operazione che oggi sembrerebbe inconcepibile, se non ci si fosse abituati a vedere il vivace azzurro di moderne piscine costruite spesso nei pressi di edifici storici o di incomparabili paesaggi, dove spiccano come una macchia di colore anomala in un quadro d’autore. Ma, nonostante le modifiche ottocentesche, le opere di fortificazione originali sono ben visibili, costante in questo tipo di edifici. In ogni caso, utilizzando gli occhiali del tempo indispensabili per poter assaporare questi luoghi, è indiscutibile la magnificenza e la bellezza delle opere medioevali che riflettono dimenticate pagine di storia. Possiamo così trasportarci nel 1312, quando la Badia a Passignano, già modificata in una fortezza, fu assediata e conquistata dall’esercito imperiale; Enrico VII di Lussemburgo, sceso in Toscana, aveva messo sotto assedio Firenze ponendo il suo quartier generale nell’abbazia Vallombrosana di San Salvi.
A queste vicende Robert Davidsohn, nella sua “Storia di Firenze”, dedica delle pagine straordinarie. Le forze imperiali non erano sufficienti per poter avere ragione della potente città del Fiore, che aveva radunato una forza di 4000 cavalieri e 60000 fanti: un’enormità di fronte all’esercito di Enrico VII, che, sebbene maggiormente addestrato e munito, contava circa 1500 cavalieri e 6000 fanti. La grandezza della città era tale che le milizie imperiali non riuscirono a circondarla: ma i fiorentini non uscirono a sfidare in campo aperto l’imperatore che aveva evidentemente soldati e cavalieri dotati di imponenti armature e con un livello superiore di addestramento. Arrivati alla fine di ottobre, con l’Arno che iniziava a gonfiarsi per le piene divenendo una possibile barriera invalicabile in caso di ritirata, l’imperatore decise di sospendere l’assedio della città, di attraversare il fiume e di portare l’esercito nel contado scatenandosi contro paesi e castelli, anche per trovare adeguati quartieri invernali. Il maresciallo Enrico di Fiandra, arrivato a Passignano non fu accolto dal canto dei salmi, ma dal grido di guerra dei Guelfi là asserragliati. Ma Passignano cedette, e fu occupato dalle truppe imperiali fino al marzo 1313.
Riprendo la strada, sterrata, che mi conduce all’ abbazia e che lascia intravedere le sue antiche pietre. Il percorso è straordinariamente antico, fa parte del tracciato creato dagli etruschi per collegare Fiesole con Volterra: e la badia a Passignano sorge su un sito le cui origini si perdono nei tempi antichi, ben prima dell’era cristiana. L’insediamento era probabilmente ubicato nella località nelle vicinanze di Passignano denominata Castelrotto, descritta dal Fornaciai nel 1903: “in detta località, e particolarmente verso nord, dove ora è la casa colonica, anch’essa denominata Castelrotto, si sono trovati scheletri umani quasi intieri, urne cinerarie, lumi eterni, spade romane, un elmo e monete del tempo di Nerone e di Domiziano. Tutto ciò, e il nome di Castelrotto, che venne dato a quel poggio, e le vestigia del castello, che ancora vi si vedono, stanno a dimostrarci che lassù qualche cosa vi doveva essere; e se è vero che nei tempi antichi è esistito in Passignano un Castello o Villaggio etrusco, è più probabile che fosse in quella località, anziché altrove”. Sono ormai vicino all’abbazia, e ne posso ammirare le imponenti pareti: percorro il viale tra i cipressi, l’antico campanile svetta accanto a me. Arrivo in una piccola piazza interna, che fornisce accesso alla chiesa e all’abbazia: ma le porte sono chiuse, non è il giorno di visita e io sono in bicicletta, comunque non posso attendere le ore del caldo per ritornare; giro la mia bicicletta e, anticipando il caldo solleone che tra poco arroventerà l’aria, rientro verso Lamole.
17 agosto 2014. È passato un anno dalla mia prima visita a Passignano, torno con la mia famiglia. Abbiamo colto l’occasione fornita da un programma di visite guidate di cui siamo venuti a conoscenza a Greve in Chianti: arrivati a Passignano – questa volta comodamente in automobile – ci attendono molte altre persone che come noi sono curiose di visitare il luogo, e una guida che con professionalità ci porterà a conoscere il complesso abbaziale. Veniamo anche a sapere che, dopo varie vicissitudini, dal 10 ottobre 1986 l’abbazia è nuovamente di proprietà dell’ordine vallombrosano, tornando a essere un monastero: e i monaci sono qui ad attenderci. Entriamo nella chiesa, dedicata a S. Michele Arcangelo, prima tappa della visita. Quanto vediamo è in gran parte l’edificio del XVI secolo; ma le sue origini sono antiche: la tradizione, confermata anche da atti manoscritti conservati nell’abbazia, indica come il primo monastero con il suo oratorio siano stati fondati intorno all’890, da certi Sichelmo e da suo fratello Zenobio. Il nome di quest’ultimo ha suggerito a molti un’ipotetica fondazione religiosa da parte di San Zanobi, fatto su cui non c’è nessuna evidenza e che scaturisce esclusivamente dalla confusione dei nomi. Sotto il presbiterio c’è l’antica cripta che risale alla prima metà dell’XI secolo, prima ancora che la badia a Passignano entrasse nell’ordine Vallombrosano. Nella cripta trovarono riposo le spoglie di San Giovanni Gualberto, fondatore dell’ordine Vallombrosano, dalla sua morte a Passignano nel 1073 fino al 1210. La sua canonizzazione era avvenuta nel 1193, con un’imponente cerimonia presieduta dal papa Celestino III, e a cui avevano partecipato anche gli ambasciatori del re di Inghilterra e dell’imperatore di Bisanzio. Ma, nonostante gli ordini papali, i vescovi di Firenze e Fiesole si opposero alla decisione di elevare agli altari il nuovo santo, per contrasti col potente monastero di Passignano: solo nell’ottobre 1210, dopo la deposizione da parte del papa dell’abate Uberto, i vescovi delle due città toscane eseguirono le direttive papali e dettero il necessario onore a San Giovanni Gualberto. In quell’anno le spoglie del santo furono portate dalla cripta all’altar maggiore della chiesa.
La dedicazione è ricordata in una targa, il 7 luglio del 1300, dopo il completamento dell’attuale facciata risalente al XIII secolo: o, più precisamente, dopo la ricostruzione dell’intera chiesa e del monastero dopo la distruzione del 1255 a opera della famiglia fiorentina degli Scolari con cui l’abbazia si era pesantemente indebitata: i vallombrosani erano stati costretti a impegnare il loro patrimonio, per sostenere le tasse che il papa aveva imposto ai monasteri per finanziare la guerra contro l’imperatore. La chiesa è un libro aperto sulla storia e sulle tradizioni. Per fornirne una prima chiave di lettura, direi che sono tre i personaggi principali intorno ai quali ruotano le principali opere d’arte contenute: S. Michele Arcangelo, S. Giovanni Gualberto e S. Atto. La devozione a S. Michele è un’antica tradizione nelle terre del Chianti, probabilmente introdotta al tempo dei longobardi, popolo profondamente legato all’Arcangelo. A esempio, il monte S. Michele è il rilievo più alto della catena dei monti del Chianti, dove tra gli abeti si trova un nascosto e stupendo oratorio dedicato all’arcangelo, con stupendi affreschi del XIV secolo: ma le testimonianze sono innumerevoli, l’argomento è affascinante e vasto. Segnalo, come testimonianza storica dell’importanza di San Michele per i vallombrosani, la tavola, del 1250 circa, di Coppo di Marcovaldo, pittore precedente a Cimabue, che rappresenta San Michele e le storie della sua leggenda. Questa tavola proviene da Sant’Angelo a Vico l’Abate, pertinenza dell’abbazia di Passignano, e la potete ammirare al Museo di Arte Sacra a San Casciano Val di Pesa.
Alcuni hanno notato che i Monti del Chianti non sono lontani dalla linea immaginaria che collega i grandi santuari dedicati a S. Michele: l’isola di Skellig Michael in Irlanda, St Michael’s Mount in Cornovaglia, MontSaint Michel in Francia, la Sacra di San Michele all’imbocco della Val di Susa in Piemonte, il santuario di San Michele Arcangelo in Puglia, il Monastero di Symi in Grecia, il Monastero del Monte Carmelo in Israele: quindi, in questa geografia… spirituale e simbolica, è logico che anche qui nel Chianti ci siano luoghi dedicati all’intrepido arcangelo. Troviamo così nella chiesa di Passignano, nel transetto a destra dell’altare, un’antica statua del XII secolo di San Michele che uccide il drago, in stile longobardo, benché la statua sia di qualche secolo più tarda rispetto al periodo suddetto; la statua un tempo chiudeva la cuspide della facciata, ora al suo posto è stata collocata una copia, l’originale è quello che troviamo all’interno della chiesa. Inoltre possiamo ammirare, a metà della navata nella parete lignea di separazione tra la zona aperta ai fedeli e quella riservata ai monaci, la tavola del XVI secolo che rappresenta i tre arcangeli, San Michele insieme a San Gabriele e San Raffaele di Michele di Ridolfo del Ghirlandaio. La cappella centrale del transetto, dedicata appunto a S. Michele, contiene tre tele dedicate alla sua storia, “L’apparizione di S. Michele sul Monte Gargano”, “La lotta di San Michele contro il drago e Lucifero” e “La Madonna col Bambino e Santi” di Domenico Cresti – detto anche il “Passignano” – che alla fine del XVI secolo si occupò di trasformare l’antica chiesa romanica nelle forme attuali.
Il secondo tema narrativo è legato a San Giovanni Gualberto. A lui fu dedicata la cappella di sinistra del transetto, su progetto di Alessandro Allori, da lui realizzata tra il 1579 e il 1584 insieme con i suoi allievi Alessandro Pieroni e Giovanni Maria Butteri. Oltre alla rappresentazione di vari episodi della vita del Santo fu realizzato un grande affresco che rappresentava la ricognizione delle sue reliquie avvenuta l’otto novembre del 1580: il dipinto, che si articola su due pareti, rappresenta in modo fotografico decine e decine di personaggi allora presenti, monaci, dame, contadini e signori, giovani. Nella cappella, oltre a importanti tele che rappresentano gli eventi della vita del Santo, troviamo il sepolcro di S. Giovanni Gualberto, ornato con una severa statua di Benedetto da Rovezzano; la testa, che sostituisce l’originale tagliata dai lanzichenecchi durante l’assedio di Firenze nel 1529, è di Giovan Battista Caccini.
A destra del transetto troviamo la cappella di San Sebastiano e Sant’Atto di Pistoia, con le pitture di Benedetto Veli eseguite intorno al 1609. A questo ciclo pittorico possiamo legare il terzo tema narrativo che troviamo nella chiesa: per me, pistoiese di origine, una sorpresa: ignoravo totalmente la provenienza del santo dall’ordine vallombrosano, e questi affreschi me la fanno scoprire. Sant’Atto, probabilmente di origini portoghesi, nasce tra il 1070 e il 1080. Entra nell’ordine vallombrosano, divenendo abate generale nel 1120. È uomo di grande cultura, è uno dei biografi di San Giovanni Gualberto. A lui chiedono aiuto nel 1125 i fiorentini che, dopo aver distrutto Fiesole, temono pesanti ritorsioni da parte del papa Onorio II: hanno bisogno di qualcuno che possa intercedere per loro. Il 21 dicembre 1134 papa Innocenzo II nomina Sant’Atto vescovo di Pistoia; anche da vescovo continuò a seguire la regola dell’Ordine Vallombrosano. S. Atto dimostra le sue grandi capacità di mediazione nei conflitti cittadini: e, utilizzando le armi mediatiche di quel tempo, per focalizzare le energie dei pistoiesi su un obiettivo superiore distogliendole dai miseri conflitti locali, propone l’audace recupero di una reliquia del corpo di S. Giacomo Apostolo a Compostela. Nella chiesa di Passignano è rappresentata la scena in cui i due pistoiesi Villano e Tebaldo, inviati a S. Giacomo di Compostela, offrono a S. Atto le reliquie dell’apostolo a loro affidate da Diego, vescovo della città spagnola. Evento importante per la storia pistoiese, essendo S. Jacopo il patrono della città: i pistoiesi già dal IX secolo erano devoti di S. Giacomo a cui avevano chiesto protezione per il pericolo dei Saraceni. Culto testimoniato dalla antichissima chiesetta di S. Iacopo in Castellare, nel cuore del centro storico di Pistoia. Nella città della Galizia, S. Atto si avvale di un diacono pistoiese di nome Ranieri che, dopo una faticosa negoziazione, riesce a convincere il vescovo di Compostela a introdurre una mano nel sarcofago dell’Apostolo per prenderne una ciocca di capelli; ma insieme a essi viene fuori anche una parte delle ossa della nuca che, come liberale dono di S. Giacomo, non possono che essere consegnate ai due nobili messaggeri venuti da Pistoia. Villano e Tebaldo tornano nella città toscana nel luglio del 1144, accolti da grandi manifestazioni di gioia. La presenza delle reliquie di S. Giacomo, o S. Jacopo, a Pistoia portò un notevole immediato sviluppo economico, per il grande afflusso di pellegrini che subito iniziò ad arrivare; e si crearono delle condizioni di pace cittadina, vuoi per una ritrovata unione intorno a S. Jacopo le cui reliquie erano state offerte a tutta la città, vuoi per il benessere economico che, se diffuso, crea condizioni di ritrovata tranquillità.
Tornando alla chiesa di Passignano, la cappella propone ulteriori affreschi relativi alla vita di S. Atto e di S. Sebastiano: sempre relativamente al primo, sono importanti la scena della sua visita al papa Innocenzo II e, con un affresco speculare a quello sulla parete opposta che rappresenta la ricognizione delle reliquie di S. Giovanni Gualberto, la rappresentazione dell’esposizione del corpo di S. Atto nel duomo di Pistoia, trovato incorrotto 250 anni dopo la sua morte. La chiesa cela altri tesori: uno di questi è il coro monastico, realizzato nel 1549. Le scritte in greco e in ebraico che troviamo sul fregio superiore – inizio dei salmi 134 e 150 – sono traccia dell’alto livello culturale raggiunto dall’abbazia. Qui si insegnavano le lingue orientali, le scienze, la matematica. Era un’università dell’epoca, che ha annoverato tra i suoi insegnanti di matematica addirittura Galileo Galilei, per un periodo novizio vallombrosano. E, come centro di studi, aveva una vastissima biblioteca di manoscritti.
Ma la visita non finisce certo qui. Ammiriamo il chiostro, di forme rinascimentali, realizzato a partire dal 1470 sul progetto di Jacopo Rosselli. Si intravedono al piano superiore del chiostro le pitture del 1483 sulla vita di San Benedetto di Filippo di Antonio Filippelli: rovinati alcuni secoli dopo da un’imbiancatura a calce, poi riportati alla luce nel XX secolo, ma in cattive condizioni. Entriamo nell’antica cucina del monastero: tutta l’attrezzatura della cucina, dal camino, al tavolo alle pentole è in dimensioni adeguate per dar da mangiare all’intero convento: una visita davvero interessante, uno sguardo sulla vita quotidiana dei monaci di qualche secolo fa. Ma manca ancora la visita all’opera più importante del monastero: “L’ultima cena”, raffigurata nel 1476 da Domenico Ghirlandaio nell’ampia sala del refettorio. Entriamo nella vasta sala, ma il locale nel 2014 era un grande cantiere di restauro e il cenacolo non visibile: erano in atto gli importanti lavori per riparare le infinite offese che l’opera aveva ricevuto in tempi antichi e recenti. Dovrò tornare, non posso lasciare in sospeso questa visita. Usciamo dal curatissimo giardino e rifletto su quanta storia è racchiusa in queste mura nascoste in un incantevole angolo del Chianti.
5 settembre 2015. Le vigne sono cariche di uva e attendono impazienti la vendemmia; settembre è un bellissimo mese per girare il Chianti, le temperature sono accettabili, la campagna si mostra con il suo volto migliore. In questo giro non arrivo fino all’abbazia, mi fermo a un edificio appena restaurato, la “Cappella dei Pesci”, che rammenta un antico episodio della vita di San Giovanni Gualberto. Siamo nel 1049: molti anni sono passati da quando Giovanni si è rifugiato ad Acquabella, la futura Vallombrosa, e ha dato inizio alla sua comunità con un piccolo gruppo di baracche di legno nascoste nella foresta. Altre comunità erano state fondate o si erano associate, tra cui San Michele di Passignano, monastero le cui origini risalivano al IX secolo. Dal piccolo gruppo di monaci di Vallombrosa stava scaturendo un importante ordine religioso, che con i suoi monasteri, centri religiosi, culturali ed economici, cingeva da ogni lato Firenze.
Un giorno del 1049 a Passignano arrivò un ospite speciale: Brunone, figlio del conte Ugo d’Egishei, divenuto papa Leone IX, noto come “il papa pellegrino” che probabilmente confidava nell’aiuto dell’ordine Vallombrosano per la profonda e non facile opera di riforma della chiesa che stava mettendo in atto. L’azione si doveva estendere alla Tuscia e alle altre regioni d’Italia, e l’appoggio dei Vallombrosani sarebbe stato decisivo. Così Leone IX pensò bene di passare da Passignano per incontrare Giovanni Gualberto, tappa importante del lungo viaggio che lo avrebbe portato a Firenze e Fiesole, a Pavia e poi in Francia. Questo dice la storia.
La tradizione arricchisce l’incontro con il racconto di un piccolo inconveniente: al monastero mancava un degno cibo da offrire al papa, e San Giovanni Gualberto mandò due conversi a pescare in un laghetto vicino al monastero dove, a quanto pare, nessuno aveva mai catturato qualcosa che potesse sfamare. Tornarono con due splendidi lucci che risolsero i problemi in cucina, fatto che fu definito un miracolo. Nel luogo dove era il laghetto fu poi costruita una cappella, anche perché la stessa fonte era ritenuta miracolosa; un certo don Jacopo Mindria da Bibbiena nel 1510 decise di costruire l’edificio a titolo di ringraziamento per testimoniare la sua guarigione. Una targa ricorda la ristrutturazione dell’edificio nel 1798, poi restaurato nel 2015 in collaborazione tra vari soggetti, quali il Lions Club Barberino Montelibertas, il Comune di Barberino Tavernelle, l’Ordine Vallombrosano, la famiglia Fara proprietaria della cappella e ChiantiBanca.
22 agosto 2017. Passignano merita un’ulteriore visita: ho saputo del completamento del restauro del cenacolo del Ghirlandaio, e vorrei anche cercare di visitare la chiesetta di S. Biagio, lo spazio religioso dedicato al popolo del borgo. Arrivo, fermo la macchina nel comodo parcheggio e alcuni cartelloni attirano la mia attenzione. Spiegano con dettaglio le caratteristiche dell’Area Naturale Protetta di Passignano, istituita nel 2008 dal Comune di Barberino Tavarnelle per preservare l’eccezionale contesto naturalistico nel quale si trova l’abbazia e inaugurata sabato 2 aprile 2016. L’area tutela un complesso e armonico ecosistema, che si intreccia con le testimonianze storiche e con agricoltura di pregio. L’aquila biancone, il picchio rosso minore – il picchio più piccolo d’Europa -, il mimetico topo quercino sono solo alcune delle oltre cento specie tra mammiferi e uccelli qui individuate; ma anche piante come il giglio di San Giovanni e il Maggiociondolo rendono l’ambiente dei boschi di Passignano di importanza straordinaria. A questo si abbinano anche importanti testimonianze paleontologiche: qui è stato rinvenuto il palato di un mastodonte, antico parente dell’elefante, ora conservato al museo di Storia Naturale di Firenze.
Il comune di Barberino Tavernelle con questa iniziativa ha dato senz’altro un grande esempio di impegno nella tutela della natura e del paesaggio; modello da seguire in molte altre situazioni, perché di boschi da tutelare, nel Chianti come in Toscana, sia per la loro importanza naturalistica sia per la loro contestualizzazione storica, ce ne sono quanti vogliamo. Tale patrimonio è in pericolo per continue aggressioni: la caccia incontrollata, con introduzione di specie invasive come cinghiali e caprioli; l’utilizzo dei sentieri, spesso antiche strade romane o medioevali, da parte dei mezzi fuori strada; l’abbandono dei rifiuti. L’inconsapevolezza diffusa della fragilità dell’ambiente possono mettere a rischio un patrimonio inestimabile che la natura e la storia ci hanno affidato. Dovremo passare a un modello in cui non ci sono più oasi o aree protette, ma tutto ciò che è ambiente naturale e storico è preservato e valorizzato, con un utilizzo venatorio o sportivo di tipo “sostenibile”. L’intervento o la presenza dell’uomo in questi luoghi deve sempre tener presente il quadrilatero che definisce la geometria del paesaggio toscano: il borgo antico, la chiesa intesa come luogo di spiritualità universale, i campi, il bosco-giardino coltivato e tenuto anch’esso dall’uomo che ne asseconda e favorisce le dinamiche e da esso riceve risorse, bellezza e spazio dove vivere momenti di libertà e di sport.
Arrivo all’abbazia, dove inizia la visita. Rivedo nuovamente la chiesa, il chiostro, la cucina: arriviamo infine al grande refettorio, dove il cenacolo di Domenico Ghirlandaio si presenta in tutto il suo splendore. Nei secoli i monasteri fiorentini fecero decorare i loro refettori con la scena dell’ultima cena. Il Ghirlandaio ne dipinse tre: oltre a Passignano nel 1476, realizzò il Cenacolo di Ognissanti nel 1480 e quello di San Marco nel 1486. Il prototipo di tale genere è il cenacolo di Taddeo Gaddi, realizzato nel refettorio di Santa Croce nel 1350; abbiamo successivamente il cenacolo di Santo Spirito, realizzato dall’Orcagna nel 1360, e quello di Sant’Apollonia di Andrea del Castagno, del 1450.
Il Cenacolo detto di Foligno è successivo alle realizzazioni del Ghirlandaio, fu realizzato dal Perugino nel convento di S. Onofrio nel 1490; abbiamo il cenacolo di Monteoliveto del Sodoma nel 1515, di San Salvi di Andrea del Sarto intorno al 1520 e quello del Carmine realizzato dall’Allori nel 1580. Non sono tutti, qualsiasi elenco delle raffigurazioni dell’ultima cena a Firenze e dintorni rischia sempre di rimanere incompleto. Quello che voglio evidenziare è che la raffigurazione della cena del giovedì santo di Gesù con gli apostoli è di fatto un genere pittorico nel cosmo dell’arte fiorentina, la cui evoluzione rappresenta una sintesi della storia pittorica della città: la stessa scena è interpretata da diversi artisti, con differenti sensibilità e in differenti periodi storici. Domenico Ghirlandaio dipinse l’ultima cena a Passignano a 27 anni, su incarico dell’Abate Del Sera. È un grande capolavoro, e ogni figura sottintende un’analisi psicologica del personaggio. Mi colpiscono i tratti con cui è rappresentato San Giovanni, addormentato in totale abbandono sul petto di Gesù. Ma la sala non offre solo lo stupendo cenacolo. Guardo in alto, e la scena raffigurante la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre, dipinta da Bernardo Rosselli nel 1474, richiama senz’altro Masaccio della cappella Brancacci; Caino che uccide Abele, con l’immagine dell’agnello sull’altare mi rammenta invece il Polittico dell’Agnello Mistico di Jan van Eyck, opera che ho visto a Gand in Belgio, dipinta tra il 1426 e il 1432 e considerata uno dei capolavori della pittura fiamminga. Su internet trovo che Masaccio e van Eyck vengono abbinati come i personaggi che danno inizio al Rinascimento, a Firenze e nelle Fiandre: ecco quindi che le due lunette che chiudono mirabilmente il cenacolo del Ghirlandaio rimandano ai grandi innovatori dell’epoca, in un susseguirsi quindi di collegamenti che, credo, debbano ancora essere del tutto compresi e approfonditi.
Ma se oggi è possibile ammirare simili capolavori è merito degli importanti lavori di restauro che hanno interessato tutta la sala del Refettorio, curati dalla Sovrintendenza e durati più di dieci anni; dopo una lunga sospensione il completamento del restauro è stato reso possibile dal contributo della famiglia Antinori e della Fondazione no-profit americana Friends of Florence, associazione internazionale che ha il fine di contribuire al recupero dello sconfinato patrimonio artistico fiorentino. Il restauro, oltre a donare una nuova vita al cenacolo del Ghirlandaio e alle due lunette del Rosselli, ha messo anche alla luce importanti affreschi del 1598 di Benedetto Veli sulle vaste pareti laterali del refettorio, raffiguranti Santi e Beati Vallombrosani.
Usciti dalla grande sala un’altra meraviglia ci aspetta. È possibile fare una visita alla piccola chiesa di S. Biagio, costruita nel 1080 dall’abate Leto per gli abitanti di Passignano, in quanto nella chiesa dell’abbazia, interna alla clausura, non si ammettevano esterni al monastero. La chiesa fu poi ricostruita intorno al 1340 dal Gianfigliazzi; ci arriviamo attraverso un nascosto percorso interno al convento. E anche qui un’ultima sorpresa ci attende. Le pareti sono ricoperte da un ciclo di affreschi del Filippelli del XV secolo, contemporanei all’affresco del Ghirlandaio: i personaggi ci guardano con una sconfinata delicatezza, e, benché la pittura appaia severamente danneggiata dal tempo, si rimane conquistati da immagini cariche di tutto lo spirito rinascimentale. Ma se, guardando le pitture del cenacolo e della chiesa di S. Biagio, con la loro dolcezza, immaginiamo un periodo di serenità e di tranquillità, ci inganniamo. Si aprono nuovamente impensabili pagine di storia.
Nel 1479, alla morte dell’abate generale Francesco Altoviti, avvenne lo scisma all’interno dell’ordine di Vallombrosa, tra il gruppo dei cosiddetti sansavini – dall’abbazia di San Salvi – e Vallombrosa; i sansavini elessero l’abate di Passignano, Isidoro, come padre generale, Vallombrosa invece elesse Biagio Milanesi, riconosciuto anche dal papa. Ma i due abati si resero conto di dover riunire l’ordine, e decisero di creare la nuova Congregazione di Santa Maria in Vallombrosa alla quale dovevano aderire tutti i monasteri. Così anche Passignano decise di aderire, ma il papa contrastò tale decisione. Il monastero in Val di Pesa doveva essere una dipendenza di Lorenzo il Magnifico, a cui era stato promesso: la sua posizione, vicina al confine con Siena, era troppo strategica per lo stato mediceo. Nel 1485 morì l’abate Isidoro, e l’abate generale Milanesi mise un Alberti come superiore di Passignano, sgradito a Lorenzo il Magnifico, che non perse tempo: mandò 3000 fanti a Passignano, con in testa il boia della Signoria: arrivati al monastero, spedirono i 25 monaci a San Salvi e deposero l’abate. Due anni dopo la figlia di Lorenzo, Maddalena, sposò il legittimo figlio del papa Innocenzo VIII: negli accordi matrimoniali le rendite di Passignano, insieme all’abbazia di Coltibuono, vennero assegnate al figlio del Magnifico, Giovanni, poi papa Leone X. E a lui i monaci dovettero pagare annualmente 2000 fiorini d’oro. La visita è finita, esco dall’abbazia, ancora molto inconsapevole di tutta la storia che c’è.
Maggio 2018. Televisioni e giornali danno la notizia che un antico crocefisso del XVI secolo attribuito a Michelangelo, dopo 18 anni di restauro presso l’Opificio delle Pietre dure, viene restituito a Passignano. Tra le particolarità dell’opera è la presenza per il perizoma di stoffa originale del XVI secolo. Su internet vedo le foto della cerimonia di inaugurazione, l’Abate di Passignano padre Lorenzo Russo con emozione accoglie nell’abbazia l’importante testimonianza: il crocefisso viene posizionato in una teca nella sala del capitolo, vicino alla chiesa e al refettorio affrescato dal Ghirlandaio, per permetterne la visibilità a tutti coloro che si recano in visita all’abbazia. La vicinanza al refettorio del cenacolo non è solo fisica, ma rammenta anche gli anni in cui Michelangelo, allora ragazzo di dodici anni, fu portato nella bottega Ghirlandaio dal padre per sostenere la famiglia con il suo lavoro di apprendista.
L’abbazia è un tesoro di arte e di storia. Abbiamo trovato tracce del passaggio di Galileo e di Michelangelo: ma i segni della storia qui presenti sono così numerosi e importanti che le pagine che vi ho proposto sono solo una piccola parte di quanto ci sarebbe da raccontare. Il luogo è inoltre un grande esempio di conservazione e di restauro. L’Ordine Vallombrosano, il Comune di Tavernelle e vari soggetti pubblici e privati hanno curato il ripristino dei tesori presenti, divenendo esempio di come si può riportare al beneficio della collettività un grande bene storico, artistico e religioso.
Per concludere vorrei proporre la citazione del brano che Johan Plesner scrisse nel 1934, che si può leggere in un punto panoramico attrezzato nei pressi dell’abbazia.
“Nessuno storico può parlare del contado fiorentino senza menzionare la celebre abbazia di Passignano, nella Val di Pesa, le cui migliaia di pergamene conservate costituiscono uno dei tesori più sfruttati dell’Archivio di Stato di Firenze. Passignano si trova nella regione meridionale del contado fiorentino, vicino alla strada più frequentata nell’antichità e nel primo medioevo, tra la Val d’Elsa e la valle superiore dell’Arno. Dopo la trasformazione delle vie di comunicazione, cioè poco prima del 1300 e durante tutti i secoli successivi, la zona è venuta a trovarsi interna a una delle regioni più isolate e più difficilmente accessibili del dominio fiorentino. Tutte le grandi vie di comunicazione posteriori passano infatti lontane da Passignano. Oggi vi si arriva per mezzo di sentieri che attraversano vaste ininterrotte foreste, e sul lato meridionale di uno dei contrafforti delle alture di Sillano, verso la Pesa, su un piccolo corso d’acqua, il Rimaggio, s’incontra l’abbazia, un’imponente e solitaria fortezza. Anche l’altura dell’altro lato del Rimaggio è oggi coperta di foreste: sulla sua sommità si trovano alcune case, resti del castello di Poggio al Vento (…) La grande e minacciosa fortezza monastica attuale è un ‘cassero’ che occupa l’intera superficie del vecchio castello. Le poche abitazioni che si trovano ancora sotto il suo lato settentrionale sono i resti del grande borgo medioevale, mentre le foreste sono per la maggior parte il risultato delle cure dei monaci, dopo che questi, nella loro tenace politica padronale durata per secoli, erano riusciti a diventare proprietari dei castelli di Passignano e di Poggio al vento nonché dei loro distretti”.
Infine desidero infine ringraziare i Padri Vallombrosani per aver concesso l’autorizzazione alla pubblicazione delle fotografie.
È vietato riutilizzare tutte le immagini riprodotte al di fuori della presente pubblicazione
– “La Badia di Passignano – note storiche e artistiche” a cura dei Monaci Benedettini Vallombrosani – pubblicazione disponibile presso il Monastero di Passignano
– Carlo e Italo Baldini, “Pievi, parrocchie e castelli di Greve in Chianti”, Vicenza 1979
– Germano Fornaciai “La Badia di Passignano: cenni storici e artistici con illustrazioni”, Firenze 1903.
– Robert Davidsohn “Storia di Firenze”, volume IV, Berlino 1896. Edizione italiana, 1956
– http://it.cathopedia.org/wiki/Abbazia_di_San_Michele_Arcangelo_a_Passignano_ – Manuela Altruda, Jan Van Eyck: la poetica fiamminga dei dettagli, 2015, su www.lacooltura.com
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