Articolo pubblicato su IUA n° 1, Anno VI, Gennaio 2019
Mi trovo a Udine per tenere una conferenza sui Poeti italiani nella Grande Guerra, nelle aule della locale Università e su invito della Associazione Toscani in Friuli Venezia Giulia. È passato un secolo esatto da quando quel tragico massacro ebbe fine, e un evento di tal genere ha ancora più senso qui, nella città sita nelle immediate retrovie del fronte, che ebbe a patire, dopo il rovescio di Caporetto, più di un anno di occupazione da parte delle truppe austriache e tedesche.
Udine, e in generale tutta la zona di occupazione nemica, subì un vero e proprio, sistematico saccheggio di ogni risorsa agricola e industriale; la popolazione, che per buona parte era fuggita al seguito delle truppe italiane in rotta, fu ridotta allo stremo dalla fame e dalle malattie.
Immediatamente più a nord, in Carnia come sul Carso, nei cimiteri provvisori di guerra, erano sepolte decine e decine di migliaia di caduti, di ambedue le parti in conflitto.
Tra i testimoni di quel dramma collettivo, tanti scrittori e poeti divenuti soldati, da Ungaretti a Soffici, da Gadda a Clemente Rebora, tanto per citarne alcuni.
Tra le poesie che sono state lette, durante la mia chiacchierata, una mi suona costantemente nelle orecchie, la terribile “Viatico” di Clemente Rebora:
O ferito laggiù nel valloncello,
tanto invocasti
se tre compagni interi
cadder per te che quasi più non eri.
Tra melma e sangue
tronco senza gambe
e il tuo lamento ancora,
pietà di noi rimasti
a rantolarci e non ha fine l’ora,
affretta l’agonia,
tu puoi finire,
e conforto ti sia
nella demenza che non sa impazzire,
mentre sosta il momento
il sonno sul cervello,
lasciaci in silenzio –
grazie, fratello.
Vi è un luogo, qui a Udine, che ricorda in modo specifico i tanti giovani morti nelle trincee e sul campo di battaglia, conservandone le spoglie. È il Tempio-Sacrario, da tutti conosciuto come Tempio-Ossario. Le pareti interne sono tappezzate di loculi, ordinatamente posti in sequenza alfabetica, dalla A alla Zeta. La chiesa è grande, posta su due piani, con la cripta che ricalca la disposizione architettonica del piano livello superiore. L’edificio, a croce latina, è sovrastato dall’alta cupola che raggiunge i 65 metri da terra.
Il grande rosone sopra il portale la immerge nella luce soffusa del giorno, ma tutto è gelido, immoto, dentro questa struttura semplice e solenne. Niente suggerisce lo strazio dei corpi dei caduti meglio della statua lignea del “cristo mutilato”, un crocifisso che era posto nel Santuario del Monte Santo, distrutto dalle granate durante il conflitto. Mancano ambedue le braccia e richiama immediatamente alla memoria il ferito “nel valloncello” della poesia sopra riportata.
Ancora più intensamente tragiche le due immense lastre marmoree che celano, nella cripta, i resti di 8000 soldati ignoti, i cui corpi devastati erano irriconoscibili. L’unica epigrafe è in latino, e recita:
et nomen una cum sanguine pro patria dedimus
che, tradotto, significa: “Insieme al sangue abbiamo dato alla patria anche il nostro nome”.
L’idea di costruire questa chiesa la ebbe un cappellano militare che era anche parroco della chiesa di San Niccolò a Udine, don Clemente Cossettini. Il suo nome, casualmente, è lo stesso di Rebora.
Ci vollero due architetti progettisti e quindici anni di lavori per completare l’opera, che fu inaugurata e consacrata il 22 maggio 1940, proprio alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, a testimonianza che è davvero raro che gli uomini imparino qualcosa dagli errori passati.
Un visitatore ha scritto, sul libro posto all’ingresso, non molto tempo fa:
Onore e rispetto ai Caduti di tutte le guerre passate e future affinché tragedie come queste possano farci capire come templi di soldati morti per la Patria non debbano più essere costruiti.
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