Milano com’era

Articolo pubblicato su IUA n° 5, Anno I, Luglio-Agosto 2014

263_q1010026300Milano, la città che non c’è più, quella difficilmente raccontabile perché la ricostruzione della ricostruzione ne ha distrutto per sempre la sua originaria natura sull’acqua, la più elegante e raffinata dell’Europa ottocentesca con i palazzi che si affacciavano sui navigli. E allora via i navigli, via questo retaggio di un romanticismo odiato dai futuristi che volevano uccidere il chiaro di luna che vi si specchiava.

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E difatti la luna ha smesso un secolo fa di illuminare i canali d’acqua con l’interramento dell’epoca fascista.

Poi la guerra, un altro duro colpo alla già martoriata città: la polvere e le macerie sono diventate l’anelito frenetico che in nome del desiderio di ricominciare e di guadagnare ha abusato della città fino ai giorni nostri.

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Gli anni di piombo e la strategia della tensione la macchiano di sangue con la strage di Piazza Fontana e l’omicidio del commissario Calabresi fino a scivolare nei rampanti anni ’80.

Sono gli anni della ‘Milano da bere’, quella di Craxi e di Cuccia, di Piazza Affari, degli imprenditori, delle grandi manovre economiche, la Milano di fine XX° secolo che sembra preludere ad una nuova ascesa: l’Italia è la quinta potenza economica del mondo e la città ben la rappresenta col suo vorticoso fiume di soldi e di collusioni in una paese che viveva sopra le righe senza saperlo.

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Il ponte lanciato sull’Expo 2015 è incerto e pericolante, anche se in cantiere i progetti ora sono ambiziosi e vogliono offrire una città nuova, dinamica, che guarda alle metropoli mondiali dalla verticalità dei suoi palazzi ecologici, come il bosco verticale di Stefano Boeri o di quelli dalle immense vetrate, onde di oceano di specchi che svettano verso l’alto a guadagnarsi uno spicchio di cielo, testimoni del terzo millennio così come le cattedrali lo sono state per il secondo.

Milano, capitale della moda, della finanza e della comunicazione, dove il ‘qui e ora’ è il motto dei suoi cittadini.

Milano che, dismessi gli abiti da salotto patriottico di Clara Maffei, frequentato anche dal Manzoni, ha abbracciato l’audacia del dinamismo del primo novecento quando ha imparato che il tempo è un istante da fermare in un’immagine, in uno svolazzo scultoreo, in una parola che fugge nel quadro premonitore della sua salita verso il futuro, nella ‘città che sale’ di Umberto Boccioni.

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Milano, un po’ stanca, annoiata e preoccupata per la malavita che l’avvinghia, gioca a nascondino con le sue oasi del passato, nei vicoletti del centro, piuttosto che nei brevi tratti di naviglio che con timida prepotenza riprendono il loro spazio svuotato.

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Milano che non si specchia più nei suoi canali e si mette in posa sui suoi ponti, torna a guardarsi nelle ‘Gallerie d’Italia, collezioni private della Banca Intesa San Paolo (già Banca Commerciale Italiana) ed espone in un percorso a tema, scorci di città come non l’abbiamo mai conosciuta, angoli visti dal pennello dei suoi artisti che regalano ai posteri frammenti di vita cittadina remota ed inimmaginabile.

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In una di queste sere ho visto la luna tornare a specchiarsi nel cielo notturno, ho tentato di fotografarla, ma non la distinguo più dall’illuminazione circolare dei neon che hanno sostituito i suoi raggi.

Sullo smartphone si compone la frase: ‘abbiamo ucciso il chiaro di luna’.

© copyright Massimilla Manetti Ricci 2014

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CC BY-NC-ND 4.0 Abbiamo ucciso il chiaro di Luna by L'Italia, l'Uomo, l'Ambiente is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License.