Colloquio con Paolo Socci

Articolo pubblicato su IUA n° 9, anno IX, Ottobre 2022

 Insieme con Paolo Socci, che dalla gioventù cura la sua Fattoria di Lamole, continuiamo il nostro viaggio in questa località prossima a Greve in Chianti: ne approfondiamo le origini, la storia e le recenti evoluzioni. Ricercatori di importanti università europee sono venuti qui per studiare il modello di territorio e di agricoltura e farne un modello internazionale: con le tecniche più moderne si recuperano le metodologie dell’agricoltura antica.  

IUA: «Paolo buongiorno, in primo luogo un grazie per il tempo che dedicherai a “L’Italia, l’Uomo, l’Ambiente”. Vorrei iniziare chiedendoti una curiosità: a Lamole siete in molti che vi chiamate Socci, pur non essendo parenti diretti. C’è un perché?»

Paolo Socci: «Si, io sono Paolo Socci e sono nato a Lamole, tu hai parlato con Annamaria anche lei Socci. Socci è uno dei cognomi più diffusi a Lamole: il dato mitico è una pergamena che sembra dica che nel 1071 c’erano i Soccii a Lamole. A quel tempo chiaramente non era un cognome, allora inesistenti, ma un’attività: i soccii erano quelli che praticavano il soccio – attualmente soccida – un contratto agrario finalizzato all’allevamento di bestiame di piccola-media taglia, pecore e maiali, un contratto di compartecipazione, una forma di allevamento “per conto”. Qui, usufruendo della grande superficie boscata che soprattutto in inverno produceva ghiande e castagne, i soccii erano coloro che portavano al pascolo questi animali. È chiaramente una zona antica: dopo il primo crinale, andando avanti verso sud, c’è il castello delle “Stinche” che è uno degli insediamenti più antichi di questa regione. Avevamo notizie di un insediamento, probabilmente di Goti, nel 1°-2° secolo d.C.. Alcuni anni fa abbiamo fatto un convegno a Radda sulle Stinche e gli archeologi ci hanno portato al VII secolo a.C. con i ritrovamenti Etruschi, piccole fornaci per il vasellame, a cui hanno dato questa datazione.»

IUA: «Le Stinche sono dov’è ora la comunità religiosa?»

Paolo Socci: «No, quelle sono le “Stinche basse” in provincia di Firenze. Subito davanti c’è il borro delle Stinche, che è al confine tra Firenze e Siena e davanti le “Stinche Alte”, in provincia di Siena   Il castello ha quindi origini etrusche, poi I-II secolo d.C. l’insediamento gotico, nel periodo longobardo era  un castello a guardia di una strada tardo-romana; ai Musei Vaticani c’è una tavola che rappresenta lo stato delle strade intorno all’anno 1000 e rappresenta il castello delle Stinche e non il Castello di Panzano che dall’XI-XII secolo diventa importante come rocca dei Firidolfi. Nel Medioevo i proprietari delle Stinche erano i Cavalcanti, con Guido amico di Dante: erano anche loro dalla parte sbagliata di Firenze. Il 5 agosto del 1304 il castello viene espugnato dalle milizie fiorentine e i Cavalcanti ribelli vengono deportati a Firenze e imprigionati nel carcere nuovo costruito dai fiorentini e chiamato “L’Isola” perché circondato da fossati d’acqua. Dai primi abitanti del carcere il nome diventò “l’Isola della gente delle Stinche” e quindi più concisamente “Isola delle Stinche” e Stinche a Firenze è sinonimo di prigione fino al ‘700 quando l’Isola fu dismessa come carcere e fu acquistato da Pagliano per farne una cavallerizza. Successivamente è divenuto il Teatro Verdi, con la facciata tergale su “Via dell’Isola delle Stinche”; tutti gli americani che vengono a Firenze trovano sulla loro guida il suggerimento di andare a prendere il gelato da Vivoli che è in Via dell’Isola delle Stinche. Per quanto riguarda la viticoltura a Lamole, oltre che il riferimento agli etruschi, che la vite l’avevano portata dappertutto, abbiamo come riferimento il Melis che attesta che a Lorenzo il Magnifico piaceva il vino di Lamole. Siamo già alla fine del ‘400, cinque secoli fa. Duecento anni fa Emanuele Repetti, geografo del Granduca di Toscana, nel suo monumentale lavoro del “Dizionario Storico Geografico Fisico del Granducato di Toscana”, di Lamole dice che è un luogo sperduto, sul versante settentrionale del Poggio delle Stinche, privo di una strada carrabile, ha soltanto una via pedonale per arrivarci ma le viti piantate fra i sassi di codesto poggio danno il buon vino di Lamole cotanto lodato. Quindi una fama vinicola importante era già ben costituita agli inizi dell’800. D’altra parte siamo in Chianti, e oggi il Chianti è quasi tutta la Toscana. Una volta il Chianti era una zona molto ristretta anche come toponimo, veniva dato alla sola pieve di Santa Maria Novella in Chianti.»

IUA: «Che è quella che si trova sulla strada da Lamole verso Radda»

Paolo Socci: «Uscendo da Il Sodo prima c’è Castelvecchi o Castel de Vecchi dal nome della famiglia che lo possedeva. Sotto c’è la pieve di Santa Maria Novella che aveva otto suffraganee. Comprendeva una zona che arrivava fino a Radda, dove si trovava la pieve di Santa Maria, non arrivava a Panzano dove c’era la pieve di San Leolino, non arrivava a Greve e a est era confinata dalla diocesi di Arezzo; quindi arriva a Montemuro, comprendeva Volpaia, Albola, Monterinaldi, Lamole e Casole dove Casole era il San Michele o Casole Alto,  villaggio  che poi scese sulla nuova strada all’inizio del Regno d’Italia, periodo in cui questa zona beneficiò di un boom economico particolare, nei primi anni ’60 del XIX secolo; una serie di progetti, probabilmente già concepiti in epoca lorenese, vennero realizzati dopo quando arrivano i finanziamenti del Regno. Gran parte delle nostre sistemazioni agrarie hanno le date incise che sono intorno agli anni ’60 dell’800, ma anche gli arredi della strada come ad esempio il fontanile  che c’è sulla strada verso Greve»

IUA: «C’è anche il ponte storico accanto al fontanile»

Paolo Socci: «Si, si; quella strada lì viene fatta negli anni ’60 dell’800; il fontanile ha una data 1872, nello stesso periodo la chiesa di Lamole viene rifatta dalle fondamenta: Lamole ha due chiese, c’è una chiesa intera che attualmente è la tinaia del prete, la chiesa romanica antica di Lamole. Nei riferimenti cartacei che si trovano negli archivi era emerso il fatto che la chiesa a un certo punto viene dismessa e poi eretta una nuova; si pensava che fossero stati fatti abbellimenti alla chiesa più antica, invece anche dalla lapide si legge di chiesa “erigendam”, è un qualcosa di rifatto dalle fondamenta. La data è 1860, esattamente la stessa della chiesa di Casole quando la parrocchia di Casole Alto scende sulla nuova strada. La strada in generale è un moltiplicatore di attività economica, e questo è successo anche per Lamole. Non si sa se dovuto o collegato al vino, Lamole era nel Chianti, e nella piccolissima area del Chianti, quindi è probabile che quando si parlava di Chianti si intendesse questa piccola zona tra Lamole e Casole: d’altra parte una delle zone più importanti quali Panzano ha una viticultura che è venuta dopo il XIX secolo, nell’epoca precedente le coltivazioni principali erano foraggi, granaglie e olivo che a Lamole stentava parecchio.»

IUA: «A volte sento parlare di origini romane di Lamole»

Paolo Socci: «Lamole ha un insediamento romano importante che è “La Villa” – foto sopra riportata -, anche solo nel nome è la testimonianza di una fattoria romana. È chiaro che è un insediamento che parte da lontano, quando prima parlavo di I-II secolo d.C.; anche all’inizio del periodo Longobardo siamo al termine dell’Impero romano. Come testimonianze di quel periodo, salvo questo nome de “La Villa”, io non ho trovato niente di particolare. Più recentemente c’è la testimonianza di una proprietà degli Strozzi a Lamole a La Villa e di altre famiglie fiorentine importanti. Torno indietro al paesaggio: “Lamole” deriva dalle “lamulae”, le piccole lame, superfici pianeggianti, normalmente riferite a lame d’acqua ma in questo caso lame di terra. Se vedi com’è fatto il territorio siamo costellati di paleofrane che, staccandosi dal versante piuttosto pendente lasciavano degli appezzamenti pianeggianti: erano quelli dove si poteva cominciare a fare agricoltura»

IUA: «I primi terrazzamenti sono quindi di origine naturale, che poi l’uomo ha cominciato a utilizzare»

Paolo Socci: «Si, infatti nelle mie fantasticherie, penso agli antichi lamolesi, probabilmente una tribù di antichi cacciatori-raccoglitori che, inseguendo qualche preda, arrivano qui, poi trovano un terreno particolarmente interessante perché ci sono questi appezzamenti pianeggianti; nel punto dove la frana si era staccata dal monte nella maggior parte dei casi sgorgava dell’acqua, e trovarono questo microclima particolare di cui ancora oggi godiamo. Il clima di Lamole è di gran lunga migliore di quello di Firenze, cosa che io ho riscoperto negli anni ’90 una volta tornato qui: si perde l’umidità della piana e, d’inverno, si trova qualche grado di temperature in più.  C’è l’inversione termica.»

IUA: «Ci sono varie cose che mi piacerebbe approfondire. Quando giro in punti particolari dei boschi si vedono strutture antiche: in parte sono vecchi terrazzamenti ricoperti dal bosco – Foto sopra -, in parte no. Si vedono anche strutture simili a Monte La Croce vicino Radda dove si trovano dei resti di epoca etrusca: quelli presenti nei boschi di Lamole sarebbero da far vedere a qualche archeologo. Un’altra cosa, che è un dato di fatto, è la scoperta di un centro dell’età del bronzo, del 3000 a.C., dove ora si trova la COOP di Ponte a Greve a Firenze. Addirittura hanno trovato le tracce di una coltivazione dell’uva e di una possibile sua fermentazione, in parole povere l’antenato del vino. Mi chiedo quindi che, se l’uomo stava alla foce della Greve in Arno, come non possiamo immaginare che 5000 anni fa questi uomini non abbiano risalito il corso del fiume, arrivando fin qui. Sarebbe da cercarne le tracce.»

Paolo Socci: «Per noi è stata già una sorpresa trovarsi retrodatati all’epoca etrusca. Sicuramente si può andare anche più in là. Il dato climatico è fondamentale, e con questo si arriva alla vocazione alla viticultura. Abbiamo questa giogaia di poggi a sud ovest che ci protegge dell’ingresso dei venti caldi, di quelli carichi di miasmi: libeccio e scirocco, che poi a Lamole divengono Volterrano e Aretino, non entrano particolarmente a Lamole: la zona è protetta da un punto di vista sanitario e permetteva la coltivazione della vite anche quando non esisteva la chimica a supporto. Zona dove queste malattie che oggi ci troviamo a combattere, di fatto non esistevano, mentre invece erano preclusive dell’attività vitivinicola a fondovalle. Quindi l’antichità della viticultura di Lamole è anche giustificata da un microclima particolare che consentiva, senza eccessive perdite, un’agricoltura che, da altre parti, non era possibile fare. Questo probabilmente è da riferire anche ad epoche lontane, quanto lontane non è possibile dirlo. Ritornando al paesaggio, dalle lamulae, che sono un fatto originario, con l’utilizzazione agronomica di questi terreni si è cominciato a dissodare e a rinvenire molte pietre. Quindi queste pietre inizialmente gettate nella scarpata, successivamente sono state organizzate in muri con una riproduzione artificiale delle lamulae con le terrazza. Sostanzialmente Lamole e Casole erano tutte sistemate a terrazze, faceva parte del know-how dei nostri predecessori, del fatto che questa è una zona che particolarmente si prestava a fare agricoltura che ha necessità di superfici pianeggianti: dove c’è un versante scosceso in tutto il mondo il sistema più diffuso è quello della terrazza e quindi anche a Lamole questo è stato uno degli aspetti fondamentali.»

IUA: «Tornando a epoche più recenti quali sono i tuoi ricordi?»

Paolo Socci: «Ricordo il Lamole di quando ero bambino, negli anni ’50, con questi vigneti tutti molto ben organizzati, con queste terrazze mantenute perfettamente, con questi muri sempre puliti, con la coltivazione della vite ad alberello lamolese – foto sopra riportata – con palo infisso nel mezzo e la chioma verde legata in alto con la paglia di segale. Erano delle pettinature, era molto bello: ricordo le amiche di mia nonna che chiamavano qui “La piccola Svizzera”, un paesaggio molto curato. Tutto questo anni ’50, si mantiene fino ad anni ’60 e termina vittima dell’esodo. Lamole alla fine della II guerra mondiale contava 900 persone; alla fine degli anni ’60 le 900 persone erano diventate 70. Quindi tutta l’attività agricola che veniva eseguita esclusivamente a mano – non era possibile l’uso dei trattori sulle terrazze – sembra che debba terminare definitivamente; ma, prendendo un’immagine da film western, quando il fortino si stava per arrendere arriva in soccorso la cavalleria. Solo che la cavalleria era quella dei bulldozer, del caterpillar: mettono giù la lama, spianano le terrazze, creano questi piani inclinati dove, piantando a “rittochino” lunghi filari nel senso della massima pendenza, si può finalmente utilizzare il trattore. Solo che a questo punto si abbandonano le terrazze, si abbandonano le coltivazioni ad alberello sostituite dalle spalliere, dall’allevamento a cordone, si abbandona anche il patrimonio genetico delle viti di Lamole tramandato da secoli. Arrivano le viti dei vivai del Nord Est d’Italia, che formano un qualcosa di diverso. Si abbandona anche la bio-diversità; non esisteva una selezione clonale, le nostre viti non erano come tanti soldatini uno uguale all’altro, ma erano una serie di individui ciascuno con le proprie caratteristiche. Fra l’altro, tenendo conto di un concetto oggi noto nella biodiversità, diventava una forma di difesa nei confronti delle avversità in quanto non tutti gli individui reagiscono nello stesso modo e quindi nella media si riesce in qualche modo a difenderci. A livello autobiografico, quando all’inizio del ‘70 sono tornato a Lamole nella casa di famiglia, c’era il problema di far fronte a una coltura che stava scomparendo e il miraggio erano i cosiddetti vigneti moderni, che significava poter essere gestiti con le macchine e non più a mano perché le mani non c’erano più. Quindi anch’io ho seguito questo percorso sino ad arrivare alla fine del ‘900 quando ci siamo chiesti se non avevamo buttato via anche il bambino con l’acqua sporca. Ossia noi abbiamo messo in piedi un’agricoltura che rappresenta una cesura rispetto a quella precedente: non più terrazze, non più alberelli, non più le viti storiche di Lamole. Abbiamo iniziato una viticultura di importazione con scarsissimo legame, se non il territorio, con quella precedente. E, allora, ho cominciato in modo un poco strano un percorso di ricerca di come riscoprire i saperi degli antichi agricoltori di Lamole. Le persone che l’avevano praticata non c’erano più. Scritto non avevano lasciato niente però c’erano le terrazze abbandonate, non distrutte dal caterpillar. Quindi l’operazione è iniziata con il restauro di queste terrazze, il disboscamento in molti casi, quantomeno togliere la vegetazione che si era appropriata di queste terrazze»

IUA: «C’erano ancora le antiche vigne?»

Paolo Socci: «Non c’erano più, però c’erano queste sistemazioni, e dalla loro lettura si cominciò a capire qualcosa. Qualcosina della tradizione orale, poi il fatto che io sia tra i più vecchi di Lamole, me la sono portata dietro. Quindi nel 2002 è iniziata la progettazione e nel 2003 ho restaurato i primi 4 km di muri a secco con un progetto alquanto ambizioso. C’è stata la possibilità, credo una delle prime volte in Toscana, di utilizzare il CAD (Computer Aided Design, Progettazione Assistita da Calcolatore n.d.r.) perché avevo la fortuna di ospitare un corso IFTS (Istruzione e Formazione Tecnica Superiore n.d.r.) con degli stage di ragazzi che avevano iniziato a utilizzare il CAD che per me, come il CAM (Computer Aided Manufacturing, Costruzione assistita da Calcolatore n.d.r.), era solo un acronimo sentito al tempo della mia università. Con questi operatori siamo partiti con un bel rilievo di quest’area e abbiamo progettato i vigneti come filari e come percorso delle macchine tra questi filari, perché l’obiettivo era di avere un vigneto sulle terrazze ma con la possibilità di utilizzare le stesse macchine, le stesse attrezzature che venivano utilizzate nei vigneti dei primi anni ’70, e quindi a esempio che consentissero i raggi di curvatura dei trattori. L’obbiettivo era di ridar vita agli antichi saperi tradizionali cercando di sanare la discontinuità che si era creata con la realizzazione dei vigneti moderni»

IUA: «Infatti spesso mi sono chiesto come mai i vigneti fatti nel 1860 fossero già idonei ad andarci con i trattori attuali»

Paolo Socci: «No, c’è stato un momento di riprogettazione. L’impostazione è rimasta la solita ma è stato necessario adeguarla altrimenti si sarebbe fatto qualcosa da museo. Innanzi tutto c’era da scoprire come unire i vari appezzamenti, molto piccoli, non collegati, intervallati da acquidocci e da muri, che se avessero dovuto lasciare il posto al passaggio di un trattore avrebbero ospitato pochissime viti.  Li abbiamo collegati senza distruggere la sistemazione agraria e idraulica quindi mantenendo questi acquidocci importantissimi, che a volte presentano dimensioni apparentemente spropositate: non lo sono ma sono fatti in previsione anche di meteore, come quelle attuali, con quantità enormi di acque. Questi acquidocci sono in grado di gestirle aumentando contestualmente i tempi di corrivazione: cioè l’acqua arriva al fiume (rivum) molto più tardi e c’è una laminazione di queste meteore. La prima acqua va dentro il terreno, quella successiva corre sopra. C’è bisogno di frenare l’acqua, non deve creare problemi a valle, bisogna farla arrivare progressivamente. I terrazzamenti sono sistemi eccezionali sotto questo aspetto, li abbiamo studiati e li stiamo studiando ancora oggi. La prossima settimana arriva il Prof. Michael Hensel, oggi all’Università Tecnica di Vienna che è stato uno dei primi a scoprire il nostro lavoro quando era ancora in Norvegia a Oslo. La sua scuola di Architettura di quell’Università è stata una delle prime a seguire i nostri lavori. Lo studio lo svolge insieme alla Prof. Prof.  Defne Sunguroğlu Hensel, dell’università di Monaco. C’è anche la Prof. Grazia Tucci di Firenze, con il laboratorio di Geomatica che si occupa sia di ingegneria sia di architettura, ed è il collegamento con le altre università europee. Soprattutto stiamo raccogliendo materiali su questi muri. Due anni fa, da questo tavolo, in questa casa, venivano gestiti simultaneamente sei droni, muniti di termocamere, che sia alzavano per rilevare in contemporanea temperatura e umidità, anche a zone distanti l’una dall’altra, per saperne di più su questi muri. Hanno una funzione eccezionale anche a livello “nanoclimatico” della singola terrazza; importantissimo per la gestione della coltivazione. Ora il prossimo stage inizierà da sabato-domenica 27-28 settembre, vengono montate tre stazioni microclimatiche una nel vigneto del Castello, un’altra nel vigneto Grospoli – Foto sotto riportata – qui di fronte e un’altra in cima al Poggio delle Stinche in modo da valutare le differenze microclimatiche e cercare di capirci un poco di più. I lavori fatti da questo “LamoLab” sono stati presentati ad Harward, circa un mese e mezzo fa. Sono 7 anni di rilevazioni, con stages di studenti.»

IUA: «Come sono coinvolti i soggetti dell’Amministrazione, quali Regione o Comune?»

Paolo Socci: «In modo discontinuo, e purtroppo qualche dietrofront. All’inizio, quando restaurammo i primi muri, il PSR (Piano Sviluppo Rurale della Regione Toscana) prevedeva questa attività ma non aveva prezzario. All’epoca collaboravo con il Prof. Arch. Paolo Baldeschi, titolare della cattedra di paesaggio a Architettura che aveva scritto un libro sul Chianti finanziato dalla Provincia di Firenze che comprendeva un esame dei costi relativi ai terrazzamenti. Fu possibile utilizzare questo testo come prezzario, che dette la possibilità di chiedere contributi. Non sono stati dati contributi da PSR per i successivi sviluppi. Rammento che Lamole vinse il premio europeo del paesaggio, proprio per questo studio delle terrazze antiche, per averle recuperate e riscoperto i saperi (know how) dei nostri avi. Dopo qualche convegno il discorso si è sospeso, purtroppo il premio è rimasto sconosciuto ai più, anche se per me fu l’inizio delle collaborazioni con le università e la ricerca.»

IUA: «Paolo, un grande grazie da parte della comunità de l’Italia, l’Uomo, l’Ambiente per la tua testimonianza ed esperienza che oggi hai condiviso con noi.»

Il viaggio a Lamole continuerà in un prossimo numero, con il colloquio con la Prof.  Defne Sunguroğlu Hensel (Università di Monaco di Baviera) e il Prof. Michael Hensel (Università di Vienna).

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CC BY-NC-ND 4.0 TOSCANA – Lamole: dall’antichità ai droni by L'Italia, l'Uomo, l'Ambiente is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License.