Racconto pubblicato su “Il Salotto” n° 2, anno III, Marzo 2023
Ho fatto una cosa, Mamma, quando ero a Torino. Ho camminato molto in quei giorni, cercando le tue tracce: Via Po, Via Roma, via Lagrange. E i viali e le piazze, quelle con i cavalieri. Fino al fiume. E in fondo la Gran Madre di Dio. Tu facevi tutti i giorni a piedi quella strada per andare al lavoro quando eri ragazza, prima di Papà e tutto il resto. E spesso, mi hai raccontato, ti fermavi a pregare in quella chiesa. Una chiesa non bella secondo me. Pesante e un po’ fredda. Ma era la tua chiesa e tu lì hai pregato e pianto. Allora ci sono andata. Me la immaginavo più grande, invece è raccolta. Al centro c’è una balaustra di marmo che delimita uno spazio tondo, pieno di monetine. In corrispondenza, su in alto, c’è la cupola. Allora sai cosa ho fatto? Ho cercato di visualizzare tutto il dolore che tu hai pianto, e quello mio, venuto dopo, fino a dargli una forma di enorme fagotto, ingombrante, che ho depositato al centro della balaustra. E poi ho immaginato di dargli fuoco a quel fagotto e di ridurlo in cenere. Il fumo sarebbe volato su su oltre la cupola e sarebbe svanito nell’aria. Dolore dissolto. Tutto. Quello mio e quello tuo, quello dei nostri avi e quello dei nostri discendenti. Un rituale di purificazione. La fine della sofferenza. Prima di andarmene ho benedetto la chiesa e ho guardato per l’ultima volta le immagini dei santi. Appena uscita mi sono sentita più leggera. Bisogna chiuderle certe porte, Mamma. E lasciare andare i morti, anche quelli che abbiamo amato. E le cose morte. Altrimenti moriamo anche noi con loro. E a chi serve? A nessuno.
Mi viene in mente una delle scene finali di quel film meraviglioso e poetico che è “Lezioni di piano”. La protagonista se ne sta andando via con il suo amore e il suo pianoforte su una barca. Il mare è minaccioso, fa paura. La barca sta per riempirsi d’acqua. Bisogna sacrificare il pianoforte, troppo pesante. Lei è muta, non può gridare, sul suo volto il dolore immenso del distacco dallo strumento che le ha permesso di esprimersi, al posto della parola. Il pianoforte viene gettato in acqua. Lei rimane impigliata con un piede in una delle corde che lo legano e va giù. Insieme a lui. Quasi fosse diventato il suo vero e unico amante, dal quale non vuole e non può separarsi. Può decidere se morire, laggiù, nel profondo abisso (e quasi sembra che sia questa la sua scelta, morire), oppure vivere. E quando ormai il respiro si è quasi esaurito, con uno scatto si divincola verso la superficie, su su, verso la luce, verso la vita. Ecco Mamma, il viaggio a Torino mi è servito a questo. A divincolarmi da quella fune e a guizzare libera sulla superficie dell’acqua, nuotando a bracciate vigorose, io che non so quasi nuotare. Verso la riva.
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