Racconto pubblicato su IUA n° 8, Anno V, Settembre 2018

Ci siamo tutti. Siamo i sette nipoti del nonno.

La sera di ogni capodanno, quando il campanile del paese scocca le cinque, ci raduniamo nella sua cucina. Sistemati ai due lati dell’imponente camino, da una parte i più piccoli e dall’altra noi già adulti, siamo in attesa. Ad ogni passaggio dal vecchio al nuovo anno, e solo in questa unica occasione, è consuetudine che il nonno racconti, esclusivamente a noi nipoti, un episodio della propria vita. Sono trascorsi più di venti anni da quando ho iniziato ad ascoltare le sue storie. Le parole scandite con cura con la sua voce roca, mi incantavano fin da piccino. In quelle rare occasioni mi pareva allora, e ancora mi sembra, di tornare indietro nel tempo e di rivivere con lui le sue avventure.

Oggi il nonno, noncurante del nostro chiacchiericcio e delle risate tintinnanti dei più piccoli, arranca verso la finestra della grande cucina. Il tempo ha reso il nonno nodoso e ancor più vigoroso, come fanno gli anni con gli ulivi migliori. È stato il male alle ossa, a rendere il suo passo incerto, dopo anni di lavoro duro nei campi. Torto e un po’ pendente sul lato destro, come fosse stato percosso per una vita da uno stesso vento impertinente, guarda assorto oltre il vetro battuto dalla pioggia, mentre fuori tutto si fa più scuro e umido, nell’attesa della notte che promette neve. Si volge poi verso il focolare: appare rinfrancato dal guizzo delle fiamme, mentre quasi compiaciuto per il calore ritrovato, strofina le mani l’una con l’altra.

“Ho fatto molte cose, alcune bene, altre meno.”

Ci facciamo silenziosi e in benevolo ascolto delle sue parole, certi della nostra abbondanza di futuro e della manifesta scarsità per il vecchio.

Amedeo solleva il braccio con l’indice alzato e rimane in quella posizione zitto e immobile, ombra di ulivo, per un tempo sufficiente a renderci curiosi. Dopo questo silenzio, lungo come un tuono interminabile, dà il via al suo racconto.

“Ma una, una l’ho proprio sbagliata alla grande”. Riacquistata la sua tranquillità affabile, si appoggia al tavolo di noce e mentre si accomoda sulla sedia di vimini, lentamente ci guarda bonario in volto, uno a uno. Dei sette nipoti sono il maggiore. Per me l’ultima complice occhiata.

“Ho sempre coltivato tabacco, girasoli e anche mais. Facevo le rotazioni con l’erba, in modo che anche il suolo respira e riposa, un po’ come noialtri, che lavoriamo, e poi riposiamo. C’è tutta una logica in questo meccanismo per mantenere in salute la terra che adesso non sto a spiegare”. Rolla una sigaretta lentamente. Gesti abituali. Le dita noccolute arrotolano la carta con il tabacco dentro.

“Fatto sta che il tempo passa, di terra ne ho comprata ogni anno un fazzoletto. Gli affari andavano bene, i vostri genitori si erano fatti grandi, ognuno alla sua maniera, e nessuno è rimasto a lavorare con me. E io dai, sempre a comprare terra, che era quello che mi dava la più grande soddisfazione.

Ancora terra, e terra, fin che mi son sentito “il re del podere. “ Sorride lisciando la cartina della sigaretta, il tabacco all’interno rigoline scure. Poi gli anni cominciano a pesare, la fatica del lavoro si fa sentire, il tabacco cresce di prezzo, la terra pure. Per me solo, il mio terreno è troppo ampio, mi serve un po’ di denaro per comprare la macchina nuova, penso anche ad altre spese, a qualche giorno al mare con vostra nonna. Comincio a pensare di venderne una parte, magari la più lontana, quella vicino a un greppo con i salici a mo’ di confine tra il mio podere e quello dell’Erminio, figlio del mio amico Gianni, che allora era morto da poco per un brutto male.

Un giorno di mercato, un giorno di gennaio freddo come questo di oggi, mentre siamo tutti lì, noi contadini nella Piazza grande, proprio l’Erminio mi fa: “ Ehi, Amedeo, ma non è ora di vender un po’ di terra? Sei rimasto solo a lavorarla, i figli tuoi fan dell’altro, quando ti godi un po’ la vita?”

Aveva ragione. Già: chissà quando mi godrò un po’ la vita. E allora gli ho risposto che ci avrei pensato, che forse poteva essere un’idea, quella di vendere una parte del mio podere. La sera stessa l’Erminio mi telefona per offrirmi una bella cifra proprio per quel pezzo di terra dove i salici indicavano da lontano il limite tra le nostre proprietà. Al centro del mio campo era cresciuto un bell’olmo vigoroso, e tutt’intorno alberelli sparsi, qualche roverella e un paio di querce davvero imponenti. Sei ettari, mica un gran che: 28.000 euro, mica da scherzare.

Ci vediamo al bar il giorno dopo, e gli dico: “Ascolta un po’, Erminio. Io la terra te la do, a te, però le piante stanno al loro posto. Io ti vendo la terra con le piante, che devono restare al loro posto.”

“Ma Amedeo…” fa lui: “io ci devo coltivare il tabacco…”

“Per Giove Erminio, lo so: sai come devi fare? Girare con il trattore tutt’intorno alle piante, come ho sempre fatto io. Così non ti annoi”, dico scherzando e aggiungo serio: “E le piante continuano a fare da sentinella al campo contro i malanni della terra, come è sempre stato.”

L’Erminio mi sorride e accetta con una stretta di mano. Cosa fatta. Il terreno con tutte le piante da quel momento è suo. Il notaio è solo una necessità di questi tempi, per me è la mano che conta. Ad ogni modo per fare le cose in ordine per questo mondo qui, andiamo anche a firmare una carta dal notaio e di lì a poco ho il pattuito sul mio conto.

Dopo qualche giorno mi trovo a passare in bicicletta lungo l’ argine che da casa mi porta alla via principale e chi ti vedo? L’Erminio nel campo che gli avevo venduto che sta sradicando le piante.

“Erminio!” Urlo. Ma non mi sente, intento con un verricello a strappare radici di un vigoroso corniolo ormai accasciato su un fianco.

“Erminio, Erminio!” lascio la bicicletta sul bordo dell’argine e corro nel campo, alla mia destra una giovane quercia stramazzata al suolo, sradicata e già polverosa. Nella mia corsa supero un nocciolo, un’altra quercia tagliata a terra e trafelato lo raggiungo accanto al corniolo divelto, intento a strapparne con l’argano rabbioso le radici. Vedo poco lontano il grande olmo, ultimo superstite di questa strage che pare un rapace disperato, con i rami che parevano più aperti, quasi a voler fuggire nel vento, che in quel preciso momento si era fatto più forte e muggiva impigliandosi tra i rami neri. Pareva imprecasse. Davvero cosi mi sembrava. Dio sa se dico il vero.

“Erminio, santo cielo, cosa stai facendo alle mie piante?”

“Ma Amedeo, cosa dici… la terra adesso è mia.”

“mi avevi promesso che le piante le avresti lasciate al loro posto!”

“Amedeo, ma che vuoi scherzare?! Tutti sappiamo che per far render la terra le piante devono esser cavate via!”

“Per Dio, fermati. Le piante sono parte della terra, se le togli si leverà una maledizione, lo sai te l’ho

detto, eravamo d’accordo …”

“Amedeo scansati, che ho da lavorare io.”

E staccato l’argano ruota il cingolato su cui è seduto verso destra, forse per andarsene, o solo per non avermi vicino, non so cosa gli fosse preso. Fatto sta che senza pensarci su un momento, faccio un balzo e mi paro davanti al trattore, un gigante color degli aranci. Potevo certo apparire ridicolo mentre mi inginocchiavo davanti a quella macchina che sputava calore e rumore, rumore e calore, che pareva il ringhio di un molosso furente.

Dico per pietà. Per pietà della terra, della parola data, di suo padre Giovanni mio buon amico: non uccidere le piante, custodi della terra. Gesticolo senza posa al punto che io stesso mi credo in preda a una crisi di follia. Non riesco ad arrestare le mie parole né a contenere il mio sbracciarmi, che sembrava salutassi qualcuno da lontano. Non so più cosa faccio e cosa dico, né se lui mi sente.

Erminio pare turbato. Gira il trattore. Il mostro di metallo mi sfiora appena, e poi balzellando tra le zolle e cigolando nel frastuono del suo motore bolso, lentamente lascia il campo. Nessuna parola. Le piante tagliate le ha rimosse nei giorni seguenti. Solo l’olmo è rimasto in piedi al suo posto. Unico sopravvissuto.

Il nonno osserva la sigaretta appena fatta. Poi la sminuzza in pezzi piccoli piccoli che avvicina tra loro componendo una linea retta precisa. Poggia la mano destra aperta sul tavolo in modo da toccare con pollice e indice gli estremi della linea. Con le dita dell’altra mano raduna tutte le briciole di carta e tabacco facendone un piccolo cumulo. Infine con la destra mantenuta sempre spianata le accompagna verso il bordo del tavolo per farle cadere senza fretta in un secchio bianco ai suoi piedi. Minuscola nevicata.

“Non fumo da allora. Da quel giorno rollo ogni sera una sigaretta e la distruggo. Non voglio dimenticare. Mai lasciare andare le cose.”

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CC BY-NC-ND 4.0 Mai lasciare andare le cose by L'Italia, l'Uomo, l'Ambiente is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License.