Racconto di Gianni Marucelli pubblicato su “Il Salotto”, anno IV, n° 2, Marzo 2024
Era la notte di San Lorenzo.
Di questo sono certo. Del dove e del quando, invece no. Alcuni secoli fa, suppongo.
Attorno a un borgo fortificato, posto su di un colle, sui cui declivi gli alberi d’ulivo stavano maturando i loro frutti.
L’assedio era durato settimane, forse mesi. L’esercito assediante era stato respinto ogni volta che aveva tentato l’assalto a quelle mura, che parevano inespugnabili. Poi, i suoi comandanti avevano optato per l’attesa. Ogni via di rifornimento o di fuga era stata preclusa. All’interno del borgo era cominciato a mancare il cibo, indi, via via che l’estate, un’estate torrida, priva di piogge, si era affermata, anche l’acqua era divenuta un bene prezioso.
Per primi erano stati sacrificati i pochi asini, quindi i muli, e infine i due o tre cavalli di proprietà dei maggiorenti. In qualche modo, così, gli assediati avevano tirato avanti. Quando la prima fonte si era essiccata, però, l’ansia tra la gente era cresciuta.
Dalle altre due fonti esistenti dentro la cinta murata si prese ad attingere con parsimonia. Una brocca grande al giorno per ogni famiglia, non più.
Le donne, una per ogni nucleo familiare, facevano la fila per attingere, quando la campana rintoccava il vespro. Vestite di nero, attendevano in silenzio, sotto lo sguardo attento di un milite della guarnigione.
Di chiacchierare non vi era voglia, e, a dire la verità, neppure il fiato. Quando l’acqua venne a mancare anche dalla seconda fonte, la razione fu ulteriormente diminuita. Si attingeva ora al pozzo di fronte alla chiesa superiore, nel punto più alto del colle.
Le madri e le figlie più grandi passavano ore in attesa, ogni tanto alcune sorreggevano le più deboli, altre si accasciavano lungo il muro della canonica. Poi, cominciarono a morire i bambini. Quelli che da poco tempo avevano lasciato il seno materno, non ressero più di qualche giorno, i più piccoli resistettero fin quando le madri non persero il latte. Di fronte a questa tragedia, il capitano delle milizie pregò i signori del borgo di scendere a patti col nemico. Colui che faceva le funzioni di podestà, pur a malincuore, dette parere favorevole. Gli altri lo seguirono. Venne mandata una piccola ambasceria al comandante nemico, che però respinse ogni proposta. La resa doveva essere senza condizioni: si prometteva salva la vita solo al podestà e alla sua famiglia.
Il podestà si dimostrò uomo tutto d’un pezzo: indossò le insegne della sua magistratura e quella sera stessa, alla luce fioca delle torce, dichiarò che era pronto a sacrificare sé e i propri figli, ma non la vita e i beni dei suoi concittadini. Ricevette uno stento applauso dai pochi accorsi in piazza, poi si ritirò.
Quando il pozzo cominciò anch’esso ad essiccarsi – si era ai primi di agosto – esplose la pestilenza.
L’evolversi del morbo era rapido e fatale: i bambini sopravvissuti e i pochi anziani se ne andavano tra i rintocchi del Vespro e quelli del Mattutino, con una breve ma dolorosa agonia. Presto, i pochi terreni prospicienti le mura non bastarono più per seppellire i cadaveri.
Il pievano si ammalò anch’egli e morì: prima di esalare l’ultimo respiro chiamò al capezzale la perpetua, una donna di mezza età che lo assisteva da anni. Le parlò all’orecchio, poi le impartì l’ultima benedizione. La perpetua assentì convinta, si fece il segno della croce e gli chiuse gli occhi.
Poi, prelevato da terra il gatto soriano che era da anni il suo fidato compagno, scese in cantina e vi si serrò. La poca acqua ancora disponibile finì l’antivigilia del giorno di San Lorenzo.
Chi era rimasto in vita si aggirava tra i viottoli del borgo, tentando di tenersi lontano dai corpi di chi aveva voluto morire guardando il cielo sereno. Stranamente, grida e lamenti diminuirono e cessarono: non vi era più alcuna speranza, perché quindi sprecare in quel modo le ultime energie. Dalle case in pietra, lungo la base della mura, intorno alla chiesa, il brusio attenuato era solo quello dei Requiem e dei Pater, recitati in virtù dell’antica fede.
Le sentinelle sul camminamento di ronda restarono al posto comandato, poi si accasciarono anch’essi, posando la lancia tra merlo e merlo, a simulare una vigilanza che era ormai impossibile.
Il giorno della vigilia di San Lorenzo, il nemico cominciò a prepararsi. Ormai era chiaro pure a loro che la resistenza dei borghigiani era all’estremo e in ogni caso facilmente debellabile.
La sera stessa, la perpetua cominciò la sua opera.
Da giovane era stata di servizio in casa di alcuni sommi artisti dell’epoca, e si era dilettata a utilizzare pennello e colori. Alcuni di essi, notata la sua creatività, l’avevano incoraggiata e, oltre a donarle pennelli consunti e a insegnarle a preparare i colori, le avevano dato un buon suggerimento: si divertisse pure, ma senza far sapere ad altri quella sua capacità.
Il mondo non era ancora pronto ad accogliere un’artista di genere femminile.
Così aveva fatto, per decenni, ma adesso era giunto il suo momento.
Durante la notte, con grande fatica, incoraggiata dai miagolii del suo gatto, dipinse i volti delle sentinelle morte o morenti, mutando quelle facce pallide in terrificanti effigi di demoni antichi e di megere venute dall’inferno. Lavorò alacremente, trascinando sul camminamento di ronda i cadaveri ormai leggeri di defunte anziane, i cui volti affilati divennero quelli delle streghe degli incubi peggiori.
Pian piano, sotto la luce della luna, si affacciò ai merli una generazione di diavoli e diavolesse, tenuta dritta da manici di scopa e altri ammennicoli del genere.
Nella cantina del prete, un tempo buon cacciatore, aveva trovato anche numerose zanne di cinghiale, che furono applicate alla bocca del vecchio parroco, come da suo espresso desiderio.
Rivestirlo dei paramenti sacri non fu facile, e ancor meno trascinarlo sullo stretto camminamento sopra la porta principale, ma, quando la luna fu tramontata e la notte si fece livida, anche il parroco era pronto al suo dovere.
Ora veniva la parte più facile, nondimeno da condurre con assoluta precisione.
Suonare le campane “a morto” con arte costituiva il coronamento dell’impresa.
Indi, la donna preparò se stessa. Il suo volto divenne quello della Nera Signora, dalla veste luttuosa uscivano le sue mani, già magre, tramutate in orribili grinfie con l’ausilio delle unghie delle concittadine trapassate e di colla fatta in casa.
Ancora le campane a morto, due tre cinque volte.
Era l’ora delle verità.
Con le ultime energie si trascinò accanto al suo defunto datore di lavoro, sopra la
porta principale.
Albeggiava appena: ma il richiamo delle campane aveva funzionato.
Non solo alcune pattuglie, ma anche degli ufficiali di grado inferiore cavalcavano verso le mura.
Uno di essi si portò, con qualche esitazione, a venti passi dalla porta e gridò:
– Aprite e arrendetevi all’istante!
La risposta fu una risata femminile ed agghiacciante, che risuonò nel silenzio mattutino.
L’ufficiale, affiancato da un altro di pari grado, ripetette la richiesta.
Ancora una risata lunga ed acuta. Poi la perpetua illuminò con una torcia il volto del suo compagno
defunto. Fu un attimo, ma i due a cavallo rimasero inebetiti.
– Insomma, che dobbiamo riferire al nostro comandante?
La perpetua aveva preparato anche questa mossa. Servendosi di un imbuto artigianale, scandì:
– Se ci tiene tanto a varcare le porte dell’Inferno, le apriremo volentieri!
Poi si affacciò. La luce più chiara mostrò il suo orrido viso.
Uno dei soldati della pattuglia più vicina non si tenne più:
– Chi sei tu? Uomo o demone?
– Davvero non mi riconosci, soldato? Mi hai sempre temuto, e ti sono stata assai vicina.
E’ ora di incontrarci davvero. Vieni qui da me!
La torcia illuminò il volto della Morte, poi i suoi artigli accennarono a un invito.
Per l’uomo fu sufficiente. Volse il cavallo e lo spronò verso il campo, urlando ai suoi commilitoni:
– La morte! Qui c’è solo la morte e il demonio!!
Si incrociò con un altro ufficiale, di grado elevato, inviato ad accertarsi di cosa accadesse.
Anche lui fu accolto da una risata sguaiata, al che rispose:
– Chi sei tu che osi sfidarci?
– Gli antichi greci mi chiamarono Persefone, i romani Proserpina… e ho buona compagnia!
Ormai la luce del sole era abbastanza vivida da mostrare i volti delle orrende creature affacciate ai merli.
– La Regina dell’Ade, la regina dell’Inferno!
gridò l’alto ufficiale, e non poteva commettere errore più grande.
Ormai numerosi soldati, a piedi o a cavallo, si erano avvicinati, incuriositi dalla fuga del loro compagno, quel tanto che bastava per vedere e per udire.
Il terrore li invase. Quasi travolsero l’ufficiale che, intuito qualche trucco, seguito dai suoi colleghi si era slanciato verso la porta. Se vi è un sentimento umano che si propaga più velocemente degli altri, questo è la paura. E la paura di ciò che va molto oltre i limiti della vita è in grado di sopraffare anche gli uomini più coraggiosi. Così avvenne, all’alba del giorno di San Lorenzo, in un anno sconosciuto e in una plaga non definita della nostra terra.
Nonostante i richiami del comandante in persona, il terrore si propagò come il fuoco tra le fila del nemico.
Infine, quando un sottufficiale, davanti a quella fuga ignominiosa, abbatté con un colpo del suo archibugio un milite che gridava come un ossesso, spingendo gli altri ad allontanarsi, il caos divenne totale e la fuga si trasformò in ribellione.
Non fu certo l’unica volta nella storia che un esercito distrusse se stesso. Ma il motivo fu davvero inconsueto. Verso il mezzodì, del campo nemico rimaneva ben poco. Del nemico stesso, addirittura niente.
– È andata bene, Micio, bene assai. Ma non sfidiamo troppo la fortuna. Ora, con calma ma non troppa, seppelliamo i nostri amici. Poi io, che sono Piera e torno ad esserlo, mi cercherò un altro posto di lavoro.
Magari non da perpetua… che ne diresti se ci unissimo a qualche compagnia di commedianti che girovaga per il mondo? Pensi anche tu che ne abbia le qualità? Beh, di certo dove vado io verrai anche tu. A te, poi, che mi chiami Persefone o Proserpina o Cleopatra, non frega niente. Basta ci sia da mangiare!
Immagine: La notte delle stelle cadenti di Alberto Pestelli eseguito con AI
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