Articolo pubblicato su IUA n° 8, Anno I, Novembre 2014

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Per 925 giorni l’alba ha acceso il cielo sul relitto disteso sul fianco, per 925 tramonti l’oscurità ha spento l’errore umano evitabile.

Per 925 giorni il transatlantico, anima del divertimento per mare e dell’opulenza, ha mostrato l’anima smarrita e tutta la fragilità di un fragile e inadatto comando, dinanzi allo scoglio di mare, neanche minaccioso, neanche ciclopico, neanche nulla.

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Ma oggi mentre il traghetto sta per attraccare, di quella tragedia non annunciata della Concordia, resta il ricordo della cronaca e di coloro che sono diventate vittime di un incidente inutile.

La nave è ormai arrivata a Genova per la demolizione e lì al Giglio restano solo i ponteggi e le gru usate per raddrizzarla, retaggio ultimo di un evento che lei, l’isola, avrebbe fuggito per continuare a cullarsi nella quiete quasi indifferente del suo paesaggio mediterraneo.

La solerzia e la generosità con la quale gli abitanti si sono prodigati in quelle concitate ore notturne e nei giorni seguenti, hanno valso all’isola la medaglia d’oro al merito civile ma lì al porto la gente non si vanta dell’aiuto prestato, è schiva, tiene dentro di sé il dolore e il pensiero della notte della Concordia e il solo orgoglio è l’amenità del posto, dove baie, scorci e calette ammiccano dal fondale marino, vestite dalla brezza e dai pois delle migliaia di bollicine spumeggianti sputate dalle onde.

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Le case dei pescatori sono lì, quasi di cartone colorato e variamente sfumato di rosso, di rosa, di pesca con persiane vagamente puntiformi alla luce intermittente di sciabolate bagnate dall’acqua increspata sul salotto del Porto.

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Mentre l’autobus, stipato di persone perché passa di rado, sale su strade curve verso Giglio Castello, fisso questa aspra campagna di arbusti e macchia e sì cerco anche i gigli, dai quali pur deriverà il nome, penso. Ma no, di gigli non c’è traccia, perché in greco aigylion significa capra, in latino Igilium, poi Gilio nel medioevo e quindi Isola delle capre, oggi Giglio.

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Ed anche di caprette non ce ne è più traccia, e dagli antichi riti della pastorizia a quelli turistici, il passo non è stato breve, comunque inevitabile .

Pini marittimi, boschi di lecci e sughere, erica e corbezzoli, rovi di more declinano verso il mare costeggiando la strada.

Il verde si staglia come una guglia sopra la distesa del mare a scaglie bianche e azzurre sotto la punta di luce del mezzodì di una giornata agostana.

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Dietro l’ultima curva la Rocca aldobrandesca, nota come Rocca Pisana, interroga il turista, seduta sulla punta più alta dell’isola, minimalista nella sua struttura difensiva e fortificata nel suo torrione di avvistamento, protettiva nell’abbraccio della cinta muraria intorno al piccolo borgo medievale e viva e vivacizzata nei festoni di vasi fioriti lungo le pareti pietrificate in rosa.

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Michele fotografa i fili sottili sui quali i panni bagnati per asciugarsi sfilano in improbabili pose, da una finestra all’altra; panni stesi d’Italia, perché in ogni dove la biancheria appesa è una sorta di specchio riflesso di coloro che lì abitano, una spia della quotidianità e dell’intimità, un indicatore del benessere degli occupanti.

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L’odore di salmastro, alternato a quello umido della terra, trasuda dagli interstizi delle pietre e dalle fessure della cinta muraria che focalizza la mia vista in un punto di mare all’orizzonte dello sguardo.

E lì in quel punto le ansie quotidiane evaporano nell’afa del cielo sopra l’isola.

I pensieri negativi annegano dentro la trasparenza dei fondali e quello che ne risale è un pensiero nuovo rigenerato per nuovi approdi.

Intanto le voci dei ragazzi risuonano sui camminamenti delle mura del 1280; Gianluca, Cosimo, Fabio, Francesca come sentinelle di tanti secoli fa, corrono su e giù, padroni di quell’altezza e di quell’immensità che fa loro toccare il cielo con un dito, immaginando di avvistare pirati saraceni, emergenti dal nulla, pronti all’assalto dell’isola.

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Dalla porta di una scala ripida in pietra, nello spazio risicato di una stradina stretta e lunga una donna porta una cesta infarinata verso la trattoria lì di fronte: all’interno il profumo del panficato, specialità del luogo, avvolge me, turista per un giorno, con strisce di aromi di fichi, di marmellata, di scorza di arancio e di mela.

La scia poi si affievolisce, si perde e la mutazione nell’acre odore di mare ricorda che lui di quel posto è il signore.

È quasi sera, è quasi silenzio, è quasi mare calmo, è già cena, è già traghetto, è già ritorno a casa…

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L’isola del Giglio e il giglio che non c’è… di Massimilla Manetti Ricci © 2014 è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
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Le fotografie sono di proprietà di Massimilla Manetti Ricci © 2014

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