Racconto pubblicato su IUA n° 5, Anno I, Luglio-Agosto 2014
Questo racconto è ambientato in un paesino dell’entroterra della Basilicata di poco più di 3000 anime. E’ uno di quei posti che non lo vedi se non lo vai a cercare, infatti il suo nome significa, appunto, luogo nascosto. Parlo di Latronico, un paesino situato ai piedi del monte Alpe. E’ un paese dove ancora sono vivono antiche tradizioni e i valori di un tempo (la famiglia, l’amore per gli altri, la condivisione delle altrui gioie e sofferenze ecc.) dove i cittadini possono, tranquillamente, lasciare la chiave fuori dalla porta senza alcun pericolo che qualcuno possa intrufolarvisi. E’ un posto dove, per alcuni versi, sembra che il tempo si sia fermato: le donne si ritrovano sull’uscio delle case a trascorrere allegramente alcune ore, imbastendo invettive e ricamando o sferruzzando lavori a maglia. Quando percorri le stradine del centro storico, senti il profumo della buona cucina e le grida gioiose dei bimbi che giocano per la strada. Nonostante questo legame con il passato, la popolazione ha una mentalità molto aperta e proiettata verso il futuro. Ci sono molti artisti: attori, pittori, cantanti, conosciuti anche in campo internazionale.
In questo allegro paesino del sud viveva suor Virginia.
Per gli abitanti del paese era un’istituzione poiché aveva cresciuto, nell’asilo in cui era superiora, almeno due generazioni di persone. Le volevamo tutti bene per il modo educato e raffinato che mostrava. Ancora oggi me la ricordo nel suo vestito nero, il tradizionale soggolo bianco e cuffia: imponente e carismatica (per la ricchezza di valori e vitalità che emanava).
La sua esile figura e la sua vita mi riporta a S. Francesco di Assisi.
Entrambi appartenenti a famiglie agiate, donano la loro vita a Dio e votati alla povertà vivono all’insegna dell’umiltà e dello sconfinato amore verso il prossimo.
Il mio primo ricordo di lei risale ai primi anni dell’asilo quando gli impegni legati alla gestione, socializzazione e pubbliche relazioni con l’esterno, le sottraevano il tempo necessario per poter svolgere le attività didattiche, mansione svolta, egregiamente, anche dalle altre suore.
Appartenendo ad una famiglia agiata, aveva una formazione ed un bagaglio culturale che ne facevano una persona colta e raffinata.
Si è sempre interessata delle nostre vite, anche quando, lasciato l’asilo, ci siamo incamminati verso il lungo e tortuoso cammino delle nostre esistenze. Mi chiedeva spesso delle mie condizioni di salute, della famiglia e del lavoro, dandomi all’occorrenza dei saggi consigli.
La vedevo sempre, avendo lo studio di fronte alla Basilica, percorrere il tratto di strada che dall’asilo conduce in chiesa, perché come una formichina laboriosa, aveva sempre da fare.
Mi ricordo, un giorno d’inverno di qualche anno fa, quando la sua salute cominciava a crearle problemi, che all’insaputa delle altre suore, era uscita dall’asilo e cercava di raggiungere la chiesa.
Pioveva a dirotto e senza ombrello, bagnata come un pulcino, venne da me e mi chiese di dire una bugia alle altre suore, che, preoccupate per le sue condizioni di salute, non volevano che si recasse in chiesa a svolgere quelle mansioni che rappresentavano il motivo della sua esistenza.
E si, perché la sua ragione di vita era Dio e non avrebbe sopportato che niente e nessuno potesse tenerla lontana da Lui. Questa sua profonda dedizione mi commosse e non potei fare altro che aiutarla nel suo intento.
La sua mente negli ultimi anni cominciava a vacillare e questo la spaventava.
Un giorno d’estate, mentre lavoravo, tenendo la porta aperta in modo da lasciare entrare il tepore del sole e le assordanti ma confortanti e gioiose grida dei bimbi che giocavano davanti alla chiesa, la vidi arrivare con in viso un’espressione smarrita ed impaurita.
Le domandai cosa la preoccupava e timidamente mi chiese se poteva disturbarmi perché aveva un grosso problema da risolvere.
La feci sedere e le diedi tutta la mia disponibilità.
Non riusciva a collocare, in quale periodo storico erano vissuti i guelfi ed i ghibellini; le dissi che si trattava di due fazioni vissute nel XII secolo e le parlai un po’ del Medioevo.
Quando ebbi finito mi chiese se successivamente poteva venire da me per parlare un po’ di queste cose perché, le altre suore, impegnate con i bambini, avevano poco tempo da dedicarle.
Si sentiva tanto sola e poco degna dell’attenzione degli altri, soprattutto delle persone più giovani di lei.
Mi sembrava una bimba impaurita, e intenerita da tanta purezza, l’abbracciai forte cercando di rassicurarla.
Da lì a poco le sue condizioni di salute peggiorarono e non potemmo avere altri scambi così intensi.
Qualche giorno prima della sua partenza in ospedale, da cui non fece più ritorno, la vidi sul balcone: con la sua fragile mano ed il suo sconfinato sorriso mi salutava.
Questa è l’ultima immagine che ho di lei e che rimarrà sempre impressa nella mia mente.
Questa piccola ma grande donna mi ha insegnato che quando intraprendi una strada giusta, in cui credi fermamente, anche se ripida e tortuosa, devi percorrerla interamente, perché in fondo d essa troverai, sicuramente, l’arcobaleno e l’immenso sorriso di Dio.
© copyright Anna Conte 2014
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Una piccola grande donna by L'Italia, l'Uomo, l'Ambiente is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License.