Articolo pubblicato su IUA n° 4, anno X, Aprile 2023

Prima di parlare in italiano io penso sempre in sardo.
Quando canto mi metto le mani in tasca
per costringermi a restare immobile,
così come immobili sono le nostre vecchie in Sardegna

C’è un borgo medioevale chiamato Siligo al centro del Logudoro-Meilogu nel Nord-Ovest sardo, attorniato da vulcani spenti e abbellito da antiche chiese. Il Logudoro, nel periodo medioevale, è stato uno dei quattro Giudicati Sardi che ha avuto come capoluogo prima Porto Torres, poi Ardara e poi Sassari. A 400 m d’altezza alle pendici del Monte S. Antonio e del Monte Pelao, su cui si trovano resti di un santuario nuragico e di un castello, si erge appunto Siligo. L’origine del nome è documentata in periodo medioevale dai condaghi (registri patrimoniali) di San Nicola di Trullas e San Michele di Salvenero (XI-XIII sec) e da altri documenti che riportano il nome di origine come Siloque, Syloge, Siloghe la cui parte iniziale del nome dovrebbe indicare un corso d’acqua, secondo altri potrebbe derivare dal latino Siligo ginis, buone messi. È un piccolo borgo con la caratteristica fisica di stare al centro di questi caratteristici crateri vulcanici che hanno dato fisionomia alla regione del Meilogu (nome che deriva da Mediu logu cioè in mezzo al Giudicato o nel cuore del Giudicato).

Dal 1994 i suoi rilievi circostanti son stati classificati monumenti naturali per le caratteristiche forme o a guglia o rotondeggianti in calcare o in basalto, alternati a tavolati. Dai punti più panoramici lo sguardo si sofferma sulle vallate a terrazze conformatesi da fenomeni erosivi dei torrenti. Rilievo caratteristico è il Monte Santu (foto 1) per la sua forma tronco-conica, a testimonianza della sua attività vulcanica risalente a seicentomila anni fa.

Foto 1: Monte Santu

Sulla sommità del monte è visibile una chiesa dedicata a Sant’Elia ed Enoch (foto 2) che fu donata ai Benedettini di Montecassino. (XI sec.). Un’altra chiesa, quella di Santa Maria di Bubalis (foto 3) sorge sul Monte Ruju, è famosa col nome di Santa Maria di Mesumundu costruita alla fine del VI sec. sui resti delle antiche terme romane. A seguito dell’atto di donazione di Barisone I, l’Ordine Benedettino di Montecassino ne prenderà possesso insieme alla chiesa di Sant’Elia sul Monte Santu, successivamente gli stessi monaci modificheranno la chiesa di Mesumundu.

Foto 2: Chiesa di Sant’Elia ed Enoch

Foto 3: Chiesa di Santa Maria di Bubalis

Sul Monte Sant’Antonio si trova un antico complesso nuragico (nel territorio di Siligo si contano ben 25 nuraghi più protonuraghi e sette nuraghi complessi) costituito da tempio a pozzo, una torre capanna, un altro edificio, capanne di un villaggio e tempietto in antis tutto rivolto all’antico culto delle acque. Non molto lontano si trovano i resti del castello medioevale identificato con diversi nomi Cepola, Capula, Crastula. Sin dalla metà del XIII sec. si hanno conflitti di potere tra i Doria i Malaspina e il Giudicato di Arborea che si alterneranno nel governare, fino a che il re d’Aragona Alfonso V il Magnanimo concesse alla famiglia Manca di Sassari il titolo di Marchesi e in cambio donò loro il paese di Siligo castello compreso. Nel 1795 sotto i Savoia la popolazione unita parteciperà alle sommosse antifeudali durante le quali il palazzo dei feudatari venne distrutto e venne riscattato agli Alagon, ultimi feudatari. Il paese divenne autonomo nel 1839 con la soppressione del regime feudale. Un’ attrazione culturale importante è il Museo di Maria Carta autrice nonché interprete di musica popolare sarda (gosos e muttos), inoltre poetessa, attrice e politica nata e vissuta a Siligo e a Roma (1934-1994).

Da noi da sempre la gente vive di poco, quasi di niente. La nostra povertà è indicibile. Io da bambina andavo a piedi nudi in campagna a lavorare; canto perché mia nonna cantava, e sulle tanche l’uomo cantava contro la solitudine. Mio padre è morto di povertà e io sono salita sul palco in piazza a cantare, mi davano cento lire, cantavo davanti a folle di pastori, sul palco di cento paesi”.
(Maria Carta)

È a Maria Carta, storia di Sardegna, a cui volevo arrivare, partendo dal suo paese d’origine. Nel mese dell’8 marzo pensavo a quale donna sarda dedicare la giusta attenzione. È dal 1946 che la parlamentare Teresa Mattei propose la mimosa come fiore simboleggiante femminilità in forza della sua resistenza, al rifiorire in bellezza, in ambienti difficili. Dietro la luce e il colore del fiore mi è apparso il bel volto di questa donna sarda, simbolo di consapevolezza al femminile, dalle sue origini identitarie, sino al suo ruolo nel mondo, ed è a lei che vorrei simbolicamente porgere il mazzo di mimose in questo mese di marzo. Maria Carta si è distinta in tutta la sua vita nel fare tante cose, da vera personalità poliedrica, e farle con tanto impegno. Si rivedeva, come lei stessa ha detto, simile nel temperamento, alla sua amata Grazia Deledda che di sé diceva “Io sono una donna nuragica, forte”. Anche Maria amava aggiungere al suo canto folk principi culturali in cui credeva. Con orgoglio sardo parlava senza difficoltà della fatica al femminile, in cui lei stessa attraverso i ricordi, dall’infanzia sino all’età giovanile si rispecchiava. Lei per prima, sulla sua pelle visse il lavoro del villaggio, quando le donne ancora tessevano, sarchiavano il grano, raccoglievano le olive, scendevano al fiume a lavare panni, lenzuola, copri letti, copri tavoli, anche d’inverno, con i geloni che urlavano. Sveglia prima dell’alba, due chilometri a piedi, con la cesta dei panni in testa e cantando.

“Andavo a giornata con le raccoglitrici, dice, frustavano gli alberi e le olive grandinavano a terra, io con la mano di bambina ero velocissima e a sera avevo colmato quattro misure, come le donne grandi”

Teresa Casu
(poesia inedita di Maria Carta)

A Otto anni sognavo sempre scarpe
Avevo i geloni
Andavo a giornata
Con le raccoglitrici
Frustavano gli alberi
Le olive grandinavano a terra
Io con la mano piccola
Andavo lesta come una gallina affamata
A sera avevo colmato quattro misure.
Come le donne.
E Luigi mi diceva
Intenerito: Vieni ti porto
Da Donna Antonietta.
Caricava i sacchi sul cavallo
Mi alzava in sella
Salivo fra gli ulivi
Verso Sa Domo Manna.
Nel cortile gridava
Ai servi: Custa Pizzinna
Ha mani di vento
Mi portava dentro
L’intrada solenne
Coi torceri di ferro
Salivo anditi corridoi
Nel labirinto di casa
Vedevo specchi dorati
Arazzi con cervi e pavoni.
Luigi mi lasciava nel salone
Coi quadri di famiglia.
I visi mi fissavano altezzosi.
Sentivo Luigi di là a parlottare.
Pensavo: Lei oggi mi vedrà.
Mi vergognavo dei piedi piagati.
Spiavo dalla porta socchiusa
Vedevo una stanza con le tende celesti
Donna Antonietta lontano ricamava
Nella luce del tramonto.
Era vestita di raso.
Sul collo aveva un gioiello.
Da un cestino mi mandava un papassino.
Mai ha girato gli occhi verso di me.

Il suo popolo sardo fu l’ispiratore del suo canto che ha voluto portare al di là delle sponde di un’isola, e l’ha fatto con quella convinzione caparbia che una forza interiore spingeva sempre più, per incontrare cultura e accoglienza popolare allo stesso tempo. La sua figura rimandava a una bellezza mediterranea, mater mediterranea, altri l’avvicinavano alla bellezza e alla bravura di Joan Baez. Dal 1989 al 1994 lottò contro la malattia che la portò alla fine dei suoi giorni, in una lotta quotidiana durata cinque lunghi anni di sofferenza, pur continuando a cantare senza nascondersi. Lei ci ha donato la sua voce profonda e noi le restituiamo un grandissimo affetto di popolo. Maria Carta nasce a Siligo il 24 giugno 1934 giorno in cui ricorre la festa di San Giovanni, per cui i suoi genitori, contadini, la chiamarono Maria Giovanna Agostina, Agostina per ricordare la nonna materna, sennorese di nascita. Carnagione olivastra, occhi grandi e scuri, capelli corvini e lucidi. Rimane orfana molto presto, sia di padre che di madre, e insieme alla sorella Tonina e il fratello Gigi vennero cresciuti da una zia sorella della madre. A otto anni Maria lascia la famiglia per andare a lavorare. Non è una novità nel villaggio, dove la maggior parte dei bambini dividono la realtà quotidiana tra gioco e lavoro e allo stesso tempo diventano un bene comunitario e la comunità li protegge. Una comunità che crede nei sogni, per un futuro che non può sganciarsi dal suo passato antico di miti e leggende, di suoni radicati nella cultura popolare sarda e, chiedendo aiuto ai morti, ai propri antenati, si accompagna a quel mondo irreale e fantastico che però non esiste. Maria inizia a cantare in chiesa, il suo parroco, padrino di battesimo, le insegna a cantare la messa in latino da cui nascerà il suo stretto rapporto con il canto gregoriano e sarà amore per la vita. Lei nacque povera, ma non di spirito e di carattere grazie al quale realizzò la sua vita. Canta in chiesa durante le novene, nei riti della Settimana Santa e alle messe solenni. Passerà poi a cantare nelle piazze durante le sagre paesane, confrontandosi con “sos cantadores”, possessori autorevoli del canto popolare sardo, che si meravigliarono come, da una bambina minuta, potesse uscire una voce così potente. Ne provarono affetto e lei teneva in serbo quei brani antichissimi di memoria, custodita e trasmessa dai cantadores anziani, che continuerà a interpretare, a rielaborare per tutta la vita. Canti di morte e di gioia. Nel 1956 Maria aveva già acquisito in Sardegna, quella notorietà bastante ad essere contattata da Abramo Garau di Sardara, scrittore e sceneggiatore, per la partecipazione a un fotoromanzo. In quel periodo si trasferisce a Sardara entrando in amicizia con tutta la famiglia Garau e dando aiuto nelle faccende domestiche, senza sottrarsi mai a questa sua generosità, accompagnandosi sempre al canto e al sorriso. Non le costava andare a prendere l’acqua alla fontana con la brocca (mancava l’acqua corrente), tanto meno tenere puliti i pavimenti. Purtroppo poi, quel fotoromanzo pur terminato, non ebbe seguito per disonestà del regista che scappò con tutti i soldi della produzione e tutto il materiale fotografico. Fu per attori, scrittore e fotografo una gran delusione e disillusione allo stesso tempo.

Nel 1957 Maria supera le selezioni e vince il concorso “Miss Sardegna”. Era bella, di quella bellezza adolescenziale, lontana ancora dai tempi più maturi, con capelli corti e pettinati secondo la moda Hollywoodiana, con un abito chiaro, anni cinquanta, in taffetà di seta, vita strettissima, gonna ampia con sottogonne che arrivava al polpaccio, scarpe a punta con tacco e colore intonato all’abito. Questa improvvisa emancipazione che le viene riconosciuta, la spingerà a prendersi la patente a Sassari e ad acquistare piena autonomia della sua vita. A ventitré anni prenderà la decisione di lasciare la Sardegna. Nel 1958 è già a Roma, ospite di una zia di Borutta. All’inizio va a raccogliere le foglie di tabacco poi confeziona candele di cera. Nel 1960 sposerà Salvatore Laurani, sceneggiatore, più grande di lei di dieci anni. Da questo momento in poi il suo intimo galoppa alla ricerca di nuove realtà da costruire, assorbire, metabolizzare. Con questi intenti andrà in cerca di continui stimoli culturali per trasformarsi in una vera Donna che riuscirà con il suo impegno a ribaltare stereotipi e diventare Canto, Poesia, Artista, Politica sempre carica di energie positive. A Roma frequenterà il Centro Studi di Musica Popolare dell’Accademia di Santa Cecilia diretto dal maestro Diego Carpitella che raccolse ben 40.000 brani di musica popolare italiana. Fu questo per lei, lo stimolo giusto per prendere piena coscienza e consapevolezza di tutto ciò che la musica sarda rappresentasse non solo per lei.
Va così, avanti e indietro, tra Roma e Sardegna, compiendo un approfondito lavoro di ricerca sui canti popolari sardi. Con registratore e bobine fornitele dall’ Accademia di Santa Cecilia, girò in lungo e in largo, attraversando le varie provincie sarde: Logudoro, Gallura, Barbagie, Campidano, registrando canti, racconti, suoni. Grazie alle conoscenze del marito avrà contatti con Ennio Morricone e la RCA. Grazie a Ennio Morricone riuscì ad incidere i suoi pezzi e nel 1971 uscirà il suo primo doppio album intitolato Paradiso in Re successivamente Diglielo al tuo Dio, tema tratto dallo sceneggiato televisivo Mosè. Divenne cantante popolare e folk con la prima esibizione in pubblico a Roma nel Teatrino dei Cantastorie a Trastevere, grazie al manager Giancarlo Cesaroni. Nonostante la mentalità sarda ristretta che non accettava di buon grado le donne esibite sui palchi, ebbe il sostegno di un caro compaesano, don Giovanni Maria Dettori, poeta logudorese, che regalò a Maria un suo libro di poesie in sardo: Unu mattulu’ e violas a Maria Carta (un mazzo di violette a Maria). Maria le trasformò tutte in canto. Ancora non si capiva, in Sardegna, che Maria stava nobilitando il canto antico sardo, per elevarlo a patrimonio nazionale. Non si arrenderà mai, con questi nobili obiettivi, riuscirà a rendere valido tutto ciò a cui si dedicherà.

“Nella vita ho imparato che per andare avanti dignitosamente bisogna guardarsi indietro, non dimenticandosi mai da dove si è venuti, mettendo nella bisaccia tutto quello che troviamo nella nostra strada. Anche il dolore: lo raccolgo e me lo porto appresso, senza dimenticare mai che sta lì, però tutto proiettato per il futuro”.

Frequenterà a Roma Gavino Gabriel, etnomusicologo sardo, che diventerà suo maestro aiutandola a migliorare e le farà usare la chitarra classica che meglio si accompagnava al canto sardo. Nel 1972 torna a Siligo famosa. Terrà un recital e girerà un video promozionale della Global Filmindustria dal titolo “Maria Carta-Sardegna, una voce” con la regia di Gianni Amico che girerà le scene a Siligo, Porto Torres, Banari e Supramonte di Orgosolo. Il video racconta la vita di Maria e tutto viene girato dal vivo, il suo canto è in diretta. Maria canta l’amore, la morte, la gioia, il dolore attraverso le antiche melodie. Il suo cantare passato dalla necessità alla passione, diventa un impegno morale e questo suo compito sarà portato avanti sino alla fine dei suoi giorni. Il “fenomeno Maria Carta” nello stesso anno, si arricchirà con altri recital specie al Teatro Argentina di Roma che vedrà l’arrivo di numerosi emigrati sardi, pronti a rivivere i suoni della loro terra, mentre la sorella in costume sardo, riceverà il pubblico offrendo “su pane carasau”. Maria da questo momento ha successo anche all’estero, prima in Germania e poi in tutta Europa fino al Bolscioi di Mosca. Quest’ultima tappa fu per lei una grandissima emozione. Lei, convinta comunista, trema davanti alla Russia che le apre le porte e ancor di più per la gioia di portare il canto sardo. Il suo concerto diventerà famoso, con il suo nome sulla scena scritto in alfabeto cirillico a caratteri cubitali e l’intera scena occupata dalla sua forte immagine, maglia chiara a collo alto, gonna scozzese a quadri bianchi e neri, sciarpa dello stesso tessuto, i capelli trattenuti da una lunga coda di cavallo. E’ lei: Maria! Una voce unica, capace di suscitare forti emozioni, sentimenti profondi e nostalgie recondite. Una voce che è anche la speranza di un popolo antico, affinchè nel mondo se ne conosca l’anima. Nel 1973 dividerà il palcoscenico in coppia con Amalia Rodriguez, prima a Roma poi in Sardegna. I suoi concerti si ripeteranno sia a Cagliari che a Sassari con una forte affluenza di pubblico che la emozionerà. Ad ottobre accetterà di partecipare a Canzonissima presentata da Raffaella Carrà. Si presenterà con i testi sardi: Amore disisperadu e con Deus ti salvet Maria e su Dillu “S’ora chi no’ t’ido chi no’ t’ido”. Maria arriverà alla finalissima con Massimo Ranieri. È il riscatto di Maria, passata da una condizione di estrema povertà al meritato successo, non solo per la voce e la bellezza, ma specialmente per il coraggio, l’equilibrio e la cultura che rappresenta. Nel 1974 uscirà il disco Delirio e reciterà da sola la parte del coro di Euripide in una versione di Medea del regista Franco Enriquez.

Nel 1975 incide Dies Irae in canto gregoriano in latino e sardo. La sua popolarità in crescita, la porterà ad accettare il mondo del cinema, girando diversi film: Storia di una Comune Rivoluzionaria, Il Padrino parte II, Gesù di Nazareth (foto a destra), Cadaveri Eccellenti. Le sue capacità rendono preziosi i risultati che aiutano al cambiamento alla sua trasformazione e maturazione artistica. Prova di tutto ciò i cinque minuti di soli applausi del pubblico alla sua comparsa sul palco. Pubblicherà il suo libro di poesie intitolato Canto Rituale in cui rivive la memoria della sua infanzia in Sardegna. Nel 1976 è eletta consigliere comunale a Roma nelle liste del partito comunista fino al 1981, rafforzando il rapporto di amicizia e di stima profonda con Enrico Berlinguer. Assume un profondo impegno politico in cui il canto diventa momento poetico di lotta. E mai come in questo momento la tradizione popolare acquisisce valore universale. Prenderà parte a uno sceneggiato televisivo Il Passatore, storia di un brigante romagnolo con la regia di Piero Nelli e canterà nei vari concerti del Teatro Circo di Roma, scortata dalla polizia per il numeroso pubblico che riempirà l’intera piazza. Inciderà un altro disco dal titolo Vi canto una storia assai vera con temi di protesta politica, di rivendicazione operaia contro i padroni, temi anarchici e di lotta partigiana. Nel 1977 si recherà in India per il film televisivo Il reietto delle isole tratto dal romanzo di Joseph Conrad, e canterà in molte città indiane.

Di lei il romanziere sardo Giuseppe Dessì dirà: “Il suo bel viso, la fierezza e insieme la grazia del suo portamento, più che un simbolo, sono una personificazione di quella Sardegna intangibile e indomita che ho sempre amato. Quando la sua voce calda e potente si alza e riempie lo spazio, si aprono infiniti orizzonti che scendono nella storia. Dopo aver conosciuto Maria Carta, ancora una volta affermo che i soli grandi uomini della Sardegna sono le donne.”

Nel 1978 lascia la RCA per la Poligram con la quale inciderà il disco Umbras dando voce alle poesie sarde del settecento e ottocento. In questo periodo per Maria inizierà la frequentazione di un giovane architetto di cui si innamorerà intensamente, per cui porrà fine al suo matrimonio ventennale, un po’ burrascoso con Salvatore Laurani e metterà su, una nuova casa con il compagno. Nel 1980 rimane incinta. E’ il periodo più felice, ha finalmente un figlio che la completerà profondamente, ispirandole una delle più belle ninne-nanne del suo repertorio, inoltre una casa bellissima fuori Roma a più piani e duemila metri quadrati di giardino. Ora è pronta per il suo disco rock Haidiridiridiridinni. Si sposterà in Francia e terrà diversi concerti nel Palazzo dei Papi ad Avignone, all’Olympia di Parigi, e poi in Spagna. Un enorme successo per un grande interminabile lavoro!.Intanto il suo compagno la lascerà..e continuerà a crescere il suo David di quattro anni da sola.
Io non credo che si possa sperimentare l’amore, il vero amore, senza rimanerne uccisi, uccide perché finisce e finisce sempre da una parte sola….Se chi amo mi abbandona, se non mi permette più di amare, io perdo vita.
Il 3 febbraio 1985 dopo enormi sofferenze e cure inutili muore a Siligo la sorella maggiore, lei soffrirà tutto quel vuoto lasciatole dagli abbandoni e dalle perdite affettive e comincerà ad accusare cali di voce. Ma lei è una forza della natura. Continuerà a cantare in una tournée in America nelle città di Lima, a san Francisco, a Boston, a Philadelphia e nella Cattedrale di Saint Patrick a New York. Girerà lo sceneggiato televisivo L’isola di Grazia Deledda, poi Il Camorrista di Tornatore.
I padroni dell’estate. Terrà ancora i suoi innumerevoli concerti e continuerà a spostarsi nel mondo e ovunque accompagnata da enorme successo, sino al 1989. È l’anno che la segna: muore la sua madre adottiva, e il 2 settembre dello stesso anno verrà operata per tumore. La sua malattia non la porterà mai ad arrendersi, ma a lottare. La malattia è avanzata, il papa Giovanni Paolo II le farà visita all’ospedale romano. Nel mese di ottobre inizierà la chemioterapia scegliendo di curarsi nel proprio domicilio. Non farà trapelare tutto ciò che le sta succedendo e a fine mese accetta l’invito di cantare alla Fiera Campionaria di Cagliari. Canterà in maniera struggente e ancora tanti altri impegni si succederanno. A giugno del 1990 sarà invitata a Nora per la rassegna “la notte dei poeti” e quando sale sul palco si accorge di aver perso la memoria per circa dieci minuti, l’angoscia la paralizza e non riesce a parlare. La natura intorno, sembra estranea al suo stato psicologico, i ruderi romani, la luna, il rumore del mare… Eppure Maria canta. Canta sempre, con enfasi intensa, accompagnata dalla chitarra classica e dal suono delle launeddas. Nel 1991 il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga la nominerà Commendatore della Repubblica.

Nello stesso anno viene nominata docente a contratto di Antropologia culturale all’Università di Bologna, un traguardo illustre che sarà la sintesi di tante esperienze e ricerche convalidate dai risultati raggiunti. A Cagliari dichiarerà pubblicamente di essere stata operata di un tumore. La malattia evolverà in metastasi sulla teca cranica e verrà rioperata a Bologna. Seguiranno ancora film, trasmissioni televisive, commedie musicali, musical. Nel 1993 riprenderà chemio terapia e radioterapia per l’aumento delle metastasi. Alla trasmissione di Maurizio Costanzo, Maria ammetterà la sua malattia che ormai è in stadio avanzato, esprimendo il desiderio di voler partecipare al Festival di Sanremo. Avrà, subito dopo, tante testimonianze d’affetto dal mondo dello spettacolo e dimostrazioni solidali. Canterà a Sanremo Le memorie della musica accompagnata dal coro dei Tazenda, ma non passerà l’ultima selezione. L’8 marzo l’associazione Lyoness Club di Cagliari le assegnerà il premio “Donna sarda dell’anno” 1993.Per motivi di salute non riuscirà a ritirare il suo premio che verrà ritirato dalla sorella più piccola, una targa raffigurante l’asfodelo con la seguente dicitura: “A Maria Carta donna sarda che ha nobilitato i canti popolari della sua gente diventandone ambasciatrice nel mondo”.
Rientrando in Sardegna, Siligo organizzerà due giornate in suo onore, per quell’occasione tutto il paese le si stringerà attorno con dimostrazioni d’affetto e tanti manifesti affissi nel Meilogu e non solo, che annunciano a caratteri cubitali “Siligo incontra Maria Carta”. Fu un meraviglioso incontro, complice anche la natura del Meilogu con i suoi profumi, i suoi colori, le voci della sua gente e i sorrisi che fanno festa. La sua gente per la prima volta le rende l’omaggio che merita.
Il sindaco Gianni Rassu dirà “E’ fuori di dubbio che Maria Carta ha dato a noi Silighesi più di quanto noi non siamo riusciti a dare a lei; basti pensare a quante volte ha portato nel mondo il nome di Siligo e quindi l’incontro di oggi va a lei e alla sua opera come segno di simpatia e gratitudine.”

Il palco l’aiuterà ancora, insieme ai Tazenda, Andrea Parodi, Piero Marras, Red Ronnie i Tenores a portar fuori ancora il meglio di se stessa con sentimenti profondi e veri e l’intensa espressività artistica che emoziona chiunque l’ascolti. Lei sublime protagonista, artefice a tutto tondo del proprio destino e autentica interprete della rivoluzione culturale della donna sarda. Trasmette un messaggio forte al mondo: il credo e il senso della vita quando diventa riconquista di esperienza, di memorie, concentrato di studio e ricerca, per cantare ancora un canto gregoriano vivo, le sue ninna nanna i suoi canti tradizionali. Il 7 dicembre 1993 l’Ordine francescano secolare con il patrocinio del Dipartimento di Italianistica e dell’Università di Bologna, organizza la rassegna Immagini femminili del Sacro in occasione dell’VIII centenario della nascita di S. Chiara d’Assisi. Maria rappresenterà la presenza femminile del canto gregoriano nell’aula absidale della Chiesa di S.Lucia a Bologna. Nonostante il freddo inverno, lei domina dall’alto del pulpito sull’immane folla accalcata, quasi una sacerdotessa, accompagnata dall’organo, canta il dolore della Madre che piange il Figlio sulla croce. La rappresentazione prevedeva la discesa dal pulpito e l’esecuzione degli ultimi canti sull’altare, con spargimento di sale per terra. Scesa dal pulpito, venne attorniata dal pubblico che l’abbraccia stupito e frastornato dalla sua bravura, e lei comincia a distribuire al pubblico il sale che teneva nelle sue mani giunte, un imprevisto che la rende felice. Sull’altare dirà “Ho finito tutto il sale.” Applausi infiniti alla grande donna che lei è stata e continua ad essere nella memoria di chi le ha voluto bene ammirata e stimata. Lei che ancora sprofonda nel buio delle grotte della sua terra e di quel profondo silenzio, ne assorbe il sole forte e caldo e si protegge con l’ombra nera dei suoi monti, lei immagine ieratica da cui origina la sua voce commovente. Lei simbolo femminile di tenacia, di coraggio, di rivalsa. Lei uscita da un’infanzia di stenti, dalla fatica del lavoro nei campi e l’isolamento territoriale che non aveva nulla da darle, si salva con la voce e offrendo al mondo i suoi canti tradizionali recuperati e preservati dalla sparizione.

“Tutti gli uomini, nel mondo, hanno un rapporto molto importante con la memoria musicale. C’è sempre un ricordo in ognuno di noi che, pur andando avanti negli anni, non si cancella: sono le memorie musicali della nostra infanzia. E per noi sardi, i suoni della Sardegna. Cos’è Siligo per me? Siligo di ieri fa parte della memoria, della mia vita, del mio modo di essere, del mio modo di camminare. Oggi mi sono resa conto che non sono mai andata via…Ho sempre camminato con Siligo, con tutti voi: con i vecchi che non ci sono più, con quelli che ho lasciato della mia età, con i piccoli che oggi ritrovo uomini, con voi che non eravate ancora nati. In quella finestra lassù io mi affacciavo, forse per vedere i miei domani, proprio quando ero bambina come voi;(si rivolge ai bambini) e poi sono cresciuta e sono andata via. Ho sempre ricordato quella finestra che mi portava lontano con la fantasia… Sono partita da qui con la volontà di cantare e portare in giro per il mondo la nostra memoria, e penso di averlo fatto con molta dignità perchè non ho camminato mai da sola. Ero presa per mano da voi tutti…E mi avete insegnato una grande cosa, che la povertà non è importante, ma è importante la grande dignità che ognuno di noi si porta dentro: la grande dignità di noi sardi…Noi siamo un popolo che non fa vedere le proprie angosce perché le porta chiuse dentro, ma poi le canta, attraverso il canto balla, e attraverso il ballo vive” (Maria Carta alla sua gente di Siligo e a tutti i Sardi)
Il 30 giugno 1994 canta il suo ultimo concerto a Tolosa il più bel concerto degli ultimi quindici anni di canto. La malattia ora è molto severa, lei è sempre più debole, stremata dalla chemioterapia che le dà problemi collaterali e non riesce più ad alimentarsi. Circondata dai suoi affetti il 22 settembre del 1994, lucida e straziata, alle 15.30 Maria muore: aveva 60 anni.


Bibliografia
sardegnaturismo.it
comunesiligo.it
lamiasardegna.it
tottusimpari.it
enciclopediadelledonne.it
Maria Carta la memoria della Sardegna Patria indipendente Emanuele Garau Maria Carta Cagliari 1998
Giacomo Serreli Maria Carta voce e cuore di Sardegna Padova 2019
Immagini da internet:
wwwmaria-carta.com
Fondazione Maria Carta
Patria indipendente
Le vie della Sardegna
Comune di Siligo

Share Button
Please follow and like us:

CC BY-NC-ND 4.0 Maria Carta: Il canto della Sardegna by L'Italia, l'Uomo, l'Ambiente is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License.