Breve storia del vescovo di Arezzo Guglielmo degli Ubertini, caduto a Campaldino (1289)

Guglielmino degli Ubertini non era uomo da prendersi alla leggera. Non abbiamo di lui ritratti o sculture che ne raffigurino le sembianze, ma di certo non dovevano essere rassicuranti, anche in tarda età, quando era irato. La sua famiglia era di quelle importanti, all’inizio del 1200, non solo nella terra natale, il Casentino, ma anche in quelle circonvicine, e ancor più lo sarà alla fine del secolo, allorché il fratello di Guglielmo, Piero, ne ebbe esteso i possessi, fino a Città di Castello, Cagli, Borgo Sansepolcro, imponendosi ad altri nobili, come ci assicura nel libro VIII delle Istorie fiorentine (1641) Scipione Ammirato:

Aveva messo al fondo (ossia, dietro di sé, N.d.R.) Neri della Fagiuola, figliolo d’Uguccione, i conti di Montefeltro, quelli di Montedoglio (…); e in somma uscendo i termini di Toscana, e distesasi nella Marca, avea messo insieme un superbo e invidioso principato.

Gli Ubertini avevano titolo comitale, erano cioè conti, ma Guglielmo, minore del fratello e quindi escluso dalla successione, ebbe a farsi strada in altro modo, ovverosia nella Chiesa. Nato nel 1219 circa, all’età di trent’anni era stato eletto Vescovo di Arezzo, ma era già arcidiacono della cattedrale; il che doveva significare che non gli mancavano certo gli appoggi in alto loco, né la spregiudicatezza necessaria a sfruttarli. Occupò quella sede per quarant’anni, cosa rarissima, quasi impensabile, a quell’epoca, e in pratica per quattro decenni fu il vero signore di Arezzo. Come per gli altri figli della nobiltà, la sua istruzione primaria fu senz’altro quella militare, e possiamo esser certi che, se qualcuno glielo faceva notare, annuiva con orgoglio. Non gli mancavano peraltro abilità diplomatica e doti di governo; vi erano delle incomprensioni tra i canonici delle due maggiori chiese della città, la Pieve e la Cattedrale? Utilizzando la sua autorità, ne venne a capo.

Si occupò dello sviluppo dell’ospedale di Santa Maria del Ponte, promosse l’edificazione della nuova sede vescovile, partecipò al Secondo Concilio di Lione, indetto da papa Gregorio X (il quale portava il cognome dei Visconti) e il destino, nonché la propria autorità, lo favorì anche in questo, vedremo come. In un periodo caratterizzato dalle lotte fra Guelfi e Ghibellini, schierò Arezzo nella fazione ghibellina, non tanto per simpatia personale quanto per convenienza politica.

Una delle svolte essenziali della sua vita è rappresentata dal suo rapporto con Tedaldo Visconti, eletto papa col nome di Gregorio X, in circostanze davvero straordinarie, nel 1271. Il collegio cardinalizio, di cui Tedaldo non faceva parte, non essendo nemmeno sacerdote, si era riunito a Viterbo più di due anni innanzi, ma i diciannove porporati, a causa delle divisioni politiche e nazionalistiche, non erano riusciti a mettersi d’accordo sul nome del nuovo pontefice. La storia è notissima: scandalo enorme, rivolta del popolo di Viterbo guidato dal Capitano Raniero Gatti, reclusione forzata dei cardinali, diminuzione del vitto e infine scoperchiatura della sala affinché si decidessero a venire a più miti consigli abbandonando i loro dissidi.

Era giocoforza, per il Sacro Collegio, trovare una persona che non fosse coinvolta nelle polemiche:

Tedaldo Visconti, ben noto per dottrina e rettitudine, nonché per essere sodale di Bonaventura da Bagnoregio. Il prescelto non aveva che gli ordini minori e in quel momento si trovava in Terrasanta per predicare la nona Crociata, al seguito del re d’Inghilterra. Male di poco, a questo si poteva facilmente rimediare. L’importante era uscire da quella incresciosa, e scomodissima, situazione. L’eletto ricevette con stupore la notizia a San Giovanni d’Acri, dove in quei giorni movimentati ebbe anche la ventura di incontrare i fratelli Polo, che, di ritorno dal loro primo viaggio nel Catai, gli consegnarono la richiesta dell’Imperatore di quel grande e sconosciuto paese di inviare alcuni sacerdoti a predicare il Cristianesimo; e pare che l’adempimento di questa richiesta sia stato uno dei primi atti del nuovo pontefice. Il problema dell’elezione papale era stato momentaneamente risolto, ma non poteva essere ulteriormente ignorato. Così, Gregorio si fece promotore di una profonda riforma in questo campo, alla quale forse non fu estraneo il suo amico Bonaventura da Bagnoregio. Fu emanata quindi, durante il Concilio di Lione, convocato dal nuovo Pontefice, una Costituzione apostolica, la Ubi periculum, che stabiliva i nuovi regolamenti per lo svolgimento di quello che da allora fu chiamato Conclave, i cui principi essenziali ancor oggi determinano l’elezione del Papa.                               

Siamo nel 1274, e a quel Concilio, ricordiamo, partecipò anche Guglielmino degli Ubertini. Di ritorno da quell’importantissimo evento, il pontefice si ammalò. Non era da tempo in buone condizioni, gli affari della Chiesa e il lungo viaggio lo sfinirono. Il 20 dicembre 1275 giunse ad Arezzo, dove il Vescovo Guglielmino lo ospitò. Nonostante le cure, pervenne a morte i primi giorni del nuovo anno, lasciando però una somma notevolissima, trentamila fiorini d’oro, alla Curia aretina per la costruzione della nuova Cattedrale, di cui Guglielmino si era fatto promotore. All’interno della nuova chiesa il suo corpo avrebbe avuto sepoltura. Il lascito rafforzò la posizione del Vescovo in seno alla comunità, anche se la lotta tra le varie fazioni continuò e Guglielmino fu costretto, come già in precedenza, a abbandonare per qualche tempo la città. Quando vi ritornò, il suo potere fu quello di un vero e proprio Signore.  Nel giugno del 1288 si trovò a gestire una crisi pericolosa, quando un esercito guelfo, composto da truppe senesi, ma anche fiorentine e massetane, pose l’assedio ad Arezzo.

Un’iniziativa inutile, a parte le campagne devastate, che si risolse dopo una quindicina di giorni in una rinuncia da parte degli assedianti. La rinuncia, però, si trasformò in disastro militare per i Guelfi, quando divisero l’esercito. I fiorentini, infatti, tornarono alla loro città passando per il Valdarno, gli altri piegarono verso la Val di Chiana, allora zona paludosa, per raggiungere Lucignano. L’unico punto per attraversare l’acquitrino era presso la Pieve al Toppo, e i circa 3000 uomini, più i reparti di cavalleria, lo raggiunsero senza problemi. Il comandante, Ranuccio Farnese, evidentemente, non sospettava che gli aretini, oltre a tirare un sospiro di sollievo per la ritirata nemica, avessero deciso che era giunto il momento di reagire, consci che lo squilibrio numerico tra le loro forze e quelle avversarie era ridotto al minimo. Avevano, invece, il fattore sorpresa dalla loro parte. Guidati da Guglielmo de’ Pazzi e da Buonconte da Montefeltro, si divisero in due contingenti: uno seguì le truppe di Ranuccio, l’altro, passando per altra strada e marciando anche di notte, intercettò il nemico presso Pieve al Toppo. I senesi erano in assetto di marcia e furono colti impreparati. Investiti dalle frecce dei balestrieri aretini, si scompaginarono, tanto più quando il loro capo venne colpito a morte. Cominciò una spietata caccia all’uomo, cui parteciparono anche i contadini del luogo armati di forcone, che passò alla storia col nome di “giostre del Toppo”. Centinaia di senesi furono massacrati, poche le vittime da parte aretina. La sconfitta dei guelfi ebbe tal fama che Dante la ricorda nel canto XIII dell’Inferno.

Se il vescovo Guglielmino non partecipò di persona a questi fatti d’arme, nondimeno la vittoria ghibellina accrebbe il suo prestigio; ma, come uomo di spada non meno che di pastorale, non esitiamo a sospettare che la sua assenza all’evento lo indispettisse un po’. Il Vescovo era ormai anziano e malmesso; un problema al femore lo costringeva a zoppicare, l’anno successivo avrebbe compiuto i settant’anni, meta notevole per quell’epoca. E’ probabile però che giurasse a se stesso che, se la vita gli avesse offerto un’altra occasione di menar le mani, non se la sarebbe lasciata scappare. Nemmeno un anno dopo, fu accontentato. Firenze guelfa, assorbito lo shock della sconfitta dei propri alleati, preparava la rivincita, in grande stile. Stavolta, il giovane Dante Alighieri era delle partita, come feditore, cavaliere di prima linea, nello schieramento della Città del Fiore. Non molto tempo fa abbiamo narrato diffusamente lo svolgimento della battaglia di Campaldino (11 Giugno 1289), per cui non ci ripeteremo se non per l’indispensabile.

Qui ricorderemo come i fiorentini, forse su suggerimento di esuli aretini di parte guelfa, decisero di sfruttare per primi il fattore sorpresa, dirigendo inaspettatamente il proprio esercito per i valichi montani, tutt’altro che agevoli, che sfociavano in Casentino e aggredendo Arezzo da nord-ovest. Al comando, due uomini d’arme francesi, Guillaume de Durfort e Aymeric de Narbonne, supportati dal Podestà Ugolino de’ Rossi, e dai più eminenti cittadini, tra cui Corso Donati e Vieri de’ Cerchi, due che proprio non si amavano tra loro, tanto che negli anni successivi divennero fieri rivali, capeggiando l’uno la fazione dei Guelfi Neri, l’altro quella dei Guelfi Bianchi. La notizia che i fiorentini scendevano verso Arezzo dal Casentino dovette giungere rapidamente al Vescovo, forse tramite gli uomini del Conte Guido Novello, che si trovava allora nel suo castello di Poppi e che, in quanto ghibellino e podestà di Arezzo, era coinvolto direttamente nella vicenda. La reazione degli aretini fu pronta; l’esercito venne apprestato e al suo comando stavolta c’era Guglielmino degli Ubertini in persona. A Poppi, si sarebbe congiunto ai soldati del Conte. I fiorentini avevano il vantaggio della posizione, schierati come erano su un terreno per loro in leggera discesa, e anche numericamente erano superiori, seppur in misura inferiore rispetto all’anno precedente. Di questo era ben conscio Buonconte di Montefeltro, a quanto pare reduce da una ricognizione alla vigilia della scontro. Ma, ai suoi dubbi, sembra che il Vescovo abbia replicato con un’accusa, nemmeno troppo velata, di viltà. Del resto, anche a parere di molti capi aretini, non v’era scelta: se si doveva arrestare l’avanzata dei Guelfi, era lì che si doveva combattere, altrimenti avrebbero messo a ferro e fuoco le campagne. Poi, per una battaglia campale, non esisteva altro luogo adatto.

Lamattina dell’11 giugno 1289 si preannunciò come afosa. La punta di diamante dello schieramento aretino era formidabile: trecento tra i migliori cavalieri dell’Italia centrale, corazzati di tutto punto, attaccarono, sollevando una densa nuvola di polvere, i feditori e i fanti fiorentini. Tra di essi, anche il vescovo Guglielmino, che brandiva la mazza ferrata, non la spada, “per non versare sangue cristiano”. Un’arma terribile comunque, in uno scontro corpo a corpo, o cavallo contro cavallo. Buonconte e i suoi travolsero in un primo momento le schiere guelfe, poi la battaglia si frammentò in una serie di combattimenti singoli, ma la fanteria fiorentina, protetta dai palvesi, grandi scudi rettangolari dietro i quali si celavano i balestrieri, resse l’urto. Guglielmo de’ Pazzi cadde, il Vescovo venne colpito da una picca, ma l’esito della lotta rimase incerto fino a quando un atto di disobbedienza diede la vittoria ai Guelfi. Corso Donati, che comandava la riserva fiorentina e aveva l’ordine di non muoversi, colse l’attimo e attaccò ai fianchi coi suoi cavalieri. Fu l’inizio della fine, per gli aretini. Il Conte Guido, che era rimasto fermo al comando della riserva ghibellina, invece di intervenire giudicò la situazione ormai compromessa e si rifugiò coi suoi uomini nel vicino castello. Cadde anche Buonconte e caddero tanti dei migliori cavalieri aretini. Nel massacro che seguì, di molti di essi e dei loro corpi si persero le tracce. Così accadde per Buonconte di Montefeltro, la cui fine Dante immaginò in uno dei più celebri passi del Purgatorio (canto V). Anche del vescovo Guglielmino, per secoli non si seppe più niente.

Fino a che, sulla base dei pochi indizi sicuri, gli archeologi, alla fine del secolo scorso, non scavarono all’interno della chiesa di Certomondo, all’epoca dei fatti da poco edificata, nei pressi del campo di battaglia. Furono rinvenuti i resti di tre uomini, due di età tra i trenta e i quarant’anni, uno molto più anziano. Le indagini successive non hanno lasciato dubbi, lo stato alterato del femore, precedente la morte, e gli esami al radiocarbonio, identificano il vescovo-guerriero. L’11 Giugno del 2008, a 719 anni dallo svolgimento della battaglia, quel che resta del corpo del corpo di Guglielmino degli Ubertini fu traslato con tutti gli onori nella cattedrale di Arezzo, e, dopo una messa di suffragio celebrata dal vescovo di Arezzo, sepolta sotto il pavimento della cattedrale, come prescrive il diritto canonico per gli ecclesiastici morti con le armi in pugno. Un oculo appositamente collocato consente ai visitatori di leggere la lapide in latino su cui sono posati il pastorale e la spada: Qui giace il corpo di Guglielmo degli Ubertini, fondatore di questa cattedrale, morto a Campaldino combattendo strenuamente per la libertà dei suoi concittadini, il giorno 11 giugno 1289.

Immagini:

https://it.wikipedia.org/wiki/Guglielmino_Ubertini#/media/File:Portret_van_Guglielmino_Ubertini_Portretten_van_beroemde_Italianen_met_wapenschild_in_ondermarge_(serietitel),_RP-P-1909-4674.jpg in fondo alla navata, la teca in cui è conservato il corpo del suo benefattore, Papa Gregorio X – pubblico dominio

https://it.wikipedia.org/wiki/Papa_Gregorio_X#/media/File:NoccoloAndMaffeoPoloWithGregoryX_(Gregory_X).JPG – pubblico dominio

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CC BY-NC-ND 4.0 Il pastorale e la spada by L'Italia, l'Uomo, l'Ambiente is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License.