Racconto pubblicato su “Il Salotto” n° 5, anno II, Novembre 2022
Suonò la campanella e il professore, chiuso il registro e radunate le sue carte, si alzò dalla cattedra e si avviò per uscire.
Si fermò sull’uscio, esitò un attimo, e voltandosi verso gli studenti: “Dimenticavo, disse, domani compito di greco.”
Il compito di greco, l’incubo per tutte le generazioni di studenti del liceo classico.
Ho frequentato, nella seconda metà degli anni cinquanta del secolo scorso, il Liceo Classico “Niccolò Machiavelli “di Lucca, liceo particolarmente severo ed impegnativo che i rappresentanti del corpo docente, non so con quale criterio di classificazione, definivano “il secondo Liceo d’Italia”.
Per altro non si è mai saputo quale fosse il primo.
I compiti in classe di latino e di greco seguivano tutti una particolare procedura.
Gli studenti si recavano nella vasta e prestigiosa Aula Magna dell’Istituto, dove i bidelli (allora si chiamavano così e non ancora collaboratori scolastici) avevano sistemato per l’occasione un congruo numero di banchi singoli convenientemente distanziati (un “distanziamento sociale” ante litteram), per evitare agli studenti fraudolenti tentativi di copiare.
Alla destra della imponente postazione dove, nelle rituali cerimonie di inaugurazione e fine dell’anno scolastico, di conferenze e incontri vari, sedeva il Preside e le altre personalità invitate per l’occasione, veniva sistemata una grande lavagna ribaltabile.
Quando gli studenti avevano preso posto sui loro banchi, la lavagna veniva ribaltata ed appariva il brano da tradurre preparato in precedenza dal professore.
Poi, per venire incontro a chi per la lontananza dalla lavagna o per sopraggiunti dubbi, riteneva di non aver trascritto bene quello che vi era riportato, su un banchetto veniva sistemato, aperto alla relativa pagina, il testo da cui era stato tratto il brano da tradurre.
Ci si poteva muovere dai banchi, solo uno alla volta, per consultarlo.
Nonostante le severe misure che venivano minacciate per chi fosse stato sorpreso a copiare, come in tutte le scuole del mondo, gli studenti adottavano i vari metodi tradizionali per carpire qualche imbeccata dai compagni più bravi.
Si andava dalla sbirciatina sul foglio del compagno seduto davanti che, generosamente, lo metteva di lato cercando di non coprirlo con le spalle, al pizzino scambiato furtivamente col banco accanto o lasciato cadere durante il tragitto dal banco al testo da consultare, alla richiesta di aiuto mascherata da un colpo di tosse.
Metodi per altro ben conosciuti dai professori che, quando erano dall’altra parte della cattedra, avevano adottato anche loro.
Quel giorno però era stato studiato un nuovo metodo, metodo che, nelle nostre intenzioni doveva rivelarsi infallibile.
La più brava della classe, che il greco lo traduceva con facilità e quasi a vista, avrebbe dovuto tradurre il brano in breve tempo, ne avrebbe trascritto la traduzione su un foglio e l’avrebbe poi sistemato, sotto il libro messo a disposizione per la consultazione.
E tutti noi, recandoci uno alla volta, fingendo di consultare il testo, avremmo potuto sbirciare la traduzione approntata dalla compagna più brava.
Verso la fine del tempo messo a disposizione, uno di noi avrebbe ritirato, senza farsene accorgere, il foglio.
E così, quel giorno, adottammo quel metodo e tutto filò liscio.
Ma, come dice il proverbio, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.
La nostra pur bravissima compagna, per inciso dopo la maturità si laureò in lettere antiche ed ha pubblicato numerosi testi per l’insegnamento del greco e del latino, la nostra bravissima compagna come dicevo, quel giorno incappò in un grave errore nella interpretazione del brano.
E noi tutti, anche se ognuno cercò di personalizzare l’elaborato, pedissequamente, cademmo nello stesso errore.
Quando, qualche giorno dopo, il professore ci doveva riportare i compiti eravamo tutti convinti che saremmo stati gratificati da ottime votazioni.
E invece, ci accorgemmo subito, dalla sua faccia che non prometteva nulla di buono, che qualcosa era andato storto.
Si sedette alla cattedra, aprì il registro, ne estrasse il fascio dei compiti che sistemò a lato, e invece di consegnarceli, come sempre aveva fatto, si dedicò alla lezione del giorno, parlandoci della metrica dei lirici greci.
Argomento invero che non suscitò alcun interesse fra di noi che aspettavamo con ansia di conoscere l’esito del compito e che, con la coda di paglia che avevamo, già sospettavamo che non sarebbe stato quello sperato.
Poi il professore, dopo aver succintamente parlato della poesia di Alceo e di Saffo, si interruppe e preso il fascio di compiti, guardandoci severamente esclamò: “Avete barato!”
Dopo un attimo di silenzio che a noi sembrò lunghissimo continuò: “Non vi consegno i compiti. Ho dato a tutti un due. E ne terrò conto in sede di scrutinio finale.”
Si alzò, chiuse il registro, raccolse le sue cose insieme al fascio dei compiti e, senza proferire altro lasciò l’aula chiaramente irritato.
Soltanto l’educazione ed il rispetto dell’istituzione scolastica gli vietò di sbattere la porta.
Panico!
Quel compito di greco era l’ultimo prima della fine dell’anno scolastico e non c’erano più possibilità di rimediare! E questo voleva dire che molti avrebbero avuto un’insufficienza nello scrutinio finale, con la conseguenza di essere rimandati a settembre.
Dopo un’accesa discussione, si decise di inviare al professore una delegazione per chiedere scusa… e implorare clemenza.
Il giorno dopo la ridotta delegazione di cui anche io facevo parte, durante l’intervallo destinato alla ricreazione, si recò nella sala dei professori dove trovò il nostro insegnante che sorbiva un cappuccino sbocconcellando un cornetto.
Lo implorammo, col capo metaforicamente coperto di cenere, con tutta la forza di persuasione di cui eravamo capaci, di non voler tenere conto dei voti del disgraziato compito in classe.
Volle sapere quale trucco avevamo escogitato e, quando glielo esponemmo, l’ombra di un sorriso passò sul suo volto.
“Bricconcelli”, commentò.
Poi, tornato serio ci congedò, dicendo: “Ci penserò.”
Due giorni dopo, avevamo ancora lezione con lui.
Si presentò, e notammo che aveva sotto braccio ancora il fascio dei compiti, salì sulla cattedra e, aperto il registro, dopo qualche minuto di silenzio guardandoci uno ad uno, esordì dicendo: “Voglio raccontarvi un episodio di quando frequentavo la terza liceo, ed avevo pressappoco la vostra età.
Uno dei miei compagni, un giorno capitò in classe affermando di aver scoperto il testo dal quale il nostro professore di greco ricavava i brani da tradurre nei compiti in classe.
Annunciò, trionfante, che se lo era anche procurato e lanciò l’idea.
Perché non li facciamo tradurre tutti così da essere pronti per i prossimi compiti in classe? E tutti insieme si rivolsero verso di me che allora ero, e lo dico con tutta la modestia possibile, il più bravo della classe in greco e latino.
Mi sembrava impresa improba cimentarmi nella traduzione di una cinquantina di brani. Rifiutai, ma dopo che si offrirono anche di pagarmi l’operazione, accettai di tradurne una ventina.”
Il professore fece una sosta e poi riprese.
“Lavorai tutta la settimana per portare a termine le promesse traduzioni ma, sono sincero, sulle ultime, ormai stanco, tirai via. Consegnai così le traduzioni ai compagni che provvidero a tirarne le copie col ciclostile e mi consegnarono centocinquanta lire che avevano raccolte con una colletta fra di loro.
Eravamo nell’anteguerra, una cifra enorme per un ragazzo della mia età, e che investii subito nell’acquisto della bella bicicletta Bianchi che avevo sempre sognato.”
Fece un’altra pausa e proseguì.
“Il caso volle che il brano che ci fu proposto nel primo compito in classe, fosse proprio uno degli ultimi che avevo tradotto. Si aspettavano tutti delle ottime votazioni ed invece fu un disastro. Inferociti mi intimarono di restituire le centocinquanta lire, ma io non le avevo più. Non volevo rinunciare alla bicicletta e non potevo chiederle ai miei genitori.
Così concordai che le avrei restituite un poco alla volta. Con grandi rinunce e sacrifici arrivai a restituire quasi metà della somma, finché arrivò l’esame di maturità, poi le vacanze, l’iscrizione all’università, e quanto ancora dovevo restituire cadde in prescrizione o meglio nel dimenticatoio.”
Emise un profondo sospiro.
“Nel Vangelo c’è scritto “chi è senza peccato scagli la prima pietra, ed io non sono senza peccato perciò…” prese il fascio dei compiti e ad uno ad uno cominciò
a strapparli. “Annullo il compito.”
Soffocò, battendo sulla cattedra, i battimani ed i ringraziamenti che si levarono dalla classe e annunciò: “Giovedì compito in classe… e senza trucchi questa volta.”
Poi sorridendo aggiunse: “Per la cronaca, quella bicicletta ce l’ho ancora.”
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