Plastico con lo schieramento dei due esercito

Cronaca dello storico evento cui partecipò, in prima linea, il giovane Dante

Di Gianni Marucelli

Quella mattina di tarda primavera, si era all’11 di giugno, gli spalti del castello di Poppi erano insolitamente affollati. Oltre ai soldati di guarnigione, molti servi, che in genere a quell’ora attendevano alle loro incombenze all’interno, e alcuni ospiti osservavano con attenzione ciò che accadeva nella vallata, verso occidente. Ma ciò che riuscivano a scorgere era solo un gran polverone, suscitato da migliaia di uomini e di cavalli che lottavano strenuamente per restare in vita, in primo luogo, e per sconfiggere un nemico agguerrito.

Il Castello di Poppi

Sulla sinistra di quella nuvola di polvere, a stento si riuscivano a scorgere le rive dell’Arno, fitte di vegetazione. Sulla destra, oltre ad alcuni casolari, l’edificio recente della chiesa e del monastero di Certomondo, a meno di un miglio dal castello, dove erano visibili le insegne del castellano Conte Guido Novello, immobile alla testa dei suoi cavalieri e dei suoi fanti, che costituivano la riserva dell’esercito ghibellino.

Ognuno in cuor suo era consapevole che si stavano decidendo le sorti di due città, Firenze ed Arezzo, in lotta per l’egemonia sulla Toscana, ma anche delle due antiche fazioni contrapposte dei Guelfi, che nella città del Fiore detenevano ora il potere, e dei Ghibellini, che lo avevano in pugno in Casentino come nella media vallata dell’Arno, là dove il fiume cambia direzione e scorre verso il Tirreno.

La sera innanzi, la sala del castello aveva ospitato la cena dei maggiorenti ghibellini. Si era bevuto molto e si era discusso accesamente, ma le decisioni erano già state prese, anche se non tutti i comandanti erano stati d’accordo sulla tattica da tenere.

Plastico con lo schieramento dei due esercito

Una cosa era apparsa comunque evidente: gli aretini erano inferiori di numero, sia come cavalieri che come fanti. Lo aveva ribadito soprattutto Bonconte di Montefeltro, che era stato in ricognizione il giorno precedente e si era ben reso conto della precarietà della situazione. Quando aveva proposto di non accettare il guanto di sfida lanciato dai fiorentini, l’anziano e burbero vescovo Guglielmino degli Ubaldini, che maneggiava meglio la mazza ferrata dell’aspersorio, lo aveva quasi tacciato di essere un contafrottole, se non un vigliacco, anche se era consapevole che Bonconte era il più valente tra i guerrieri aretini.

Il giovane Montefeltro aveva risposto laconicamente: “Se voi verrete là dov’io son stato, non tornerete più indietro.”

Forse pochi sapevano, allora, che nelle settimane precedenti Guglielmino aveva cercato di comprare la pace dai Fiorentini, offrendo in cambio vasti possedimenti di sua proprietà. Se quella voce si fosse diffusa, probabilmente il vescovo avrebbe rischiato il linciaggio. Era perciò necessario, per lui, giocare il tutto per tutto sul campo, mettendo a tacere ogni chiacchiera, o con la vittoria o con una morte da valoroso.

In ogni modo, il vescovo non era poi tanto arrogante da contare unicamente sulla sua mazza (le armi da taglio erano precluse agli ecclesiastici dal divieto di spargere sangue cristiano). Si era messo d’accordo col suo amico e omonimo Guglielmino de’ Pazzi, con cui si sarebbe scambiato armatura e insegne, per sviare le “attenzioni” che certo il nemico gli avrebbe prodigato, in quanto capo riconosciuto dei Ghibellini. Non per niente, quarant’anni prima, era stato l’Imperatore stesso ad assicurargli la carica di vescovo…

L abbazia di Certomondo

Nello stesso momento, la sera della vigilia, i capi dell’esercito fiorentino, tra cui si segnalavano due capitani francesi, Aimeric di Narbona e Guglielmo di Durfort, gentile prestito ai Guelfi del re Carlo d’Angiò, si erano accordati sullo schieramento da tenere. Nonostante le vivissime rimostranze, a quella testa calda di Corso Donati, denominato “il Barone” per la sua superbia, era stato imposto di comandare la riserva, schierata sulla sinistra, composta da cavalieri e fanti provenienti da Pistoia, città di cui era governatore, e di non muoversi senza un ordine specifico. Ma al Barone ancor più rodeva il fatto che il suo nemico mortale, Vieri de’ Cerchi, nonostante l’età non più giovanile, fosse a capo dei “feditori”, le truppe d’assalto in primissima linea. Poco lo consolava, e anzi nemmeno più ci pensava, che il marito di sua cugina Gemma, quella nullità di Durante degli Alighieri (che tutti chiamavano Dante), fosse anche lui tra i feditori. Un pivellino, al suo primo combattimento… Il podestà di Firenze, Ugolino de’ Rossi, nominalmente comandava l’esercito, ma anche lui non aveva una grande esperienza militare. Per il momento – ragionò Corso – era meglio ubbidire. Quando fosse venuto il momento di menare le mani, avrebbe deciso cosa fare.

“Voglio vedere chi mi verrà ad accusare di insubordinazione, là tra le mura di Pistoia, dove comando io. Soprattutto se vinciamo!”.

Poco dopo l’alba, i due eserciti si erano schierati in quel vasto pianoro, in leggero declivio verso oriente, che ha nome Campaldino. I fiorentini avrebbero combattuto col sole negli occhi, e questa non era una buona cosa per gli arcieri e i balestrieri, ma avrebbero avuto il vantaggio del terreno in discesa. Inoltre, avrebbero avuto il lato destro, quello non coperto dallo scudo, dalla parte dell’Arno, e dal fiume non potevano provenire pericoli. Gli aretini, invece, oltre che essere in svantaggio numerico, avevano il fianco destro scoperto, vulnerabile a un attacco delle riserve avversarie. A loro vantaggio, invece, l’esperienza di combattimento. Tra loro, infatti, molti erano i professionisti della guerra, come Bonconte e suo fratello Paoloccio, detto Loccio.

La stele commemorativa della.battaglia, a Campaldino

L’esercito guelfo assunse una posizione prudente, con carri e masserizie come estrema linea di difesa, davanti alla quale vi erano fanti e balestrieri al riparo di grandi scudi bianchi, i palvesi, e innanzi ad essi i cavalieri, armati di lancia e coperti di maglia di ferro. Ai fianchi, le fanterie d’assalto ed in prima linea i feditori a cavallo guidati da Vieri de’ Cerchi. Tra di essi, e ce lo immaginiamo sudato già di primo mattino, il ventiquattrenne Dante Alighieri.

Certamente, in una città di mercanti si sapevano far bene i conti: appariva chiaro che il ruolo di feditore, se era conveniente per l’onore della famiglia, non lo era per niente per il diretto interessato. E, infatti, i volontari non erano stati molti, finché Vieri de’ Cerchi, sdegnato, aveva gridato che lui, nonostante l’età e gli acciacchi, insieme a suo figlio, avrebbe combattuto in prima linea. A quel punto, nessuno aveva più potuto tirarsi indietro, ed in ogni sestiere di Firenze erano stati prescelti alcuni giovani, di buona famiglia, per fungere da feditori. Tra questi, Dante Alighieri. All’estrema sinistra dello schieramento guelfo, dove il terreno inizia a salire per le prime balze d’Appennino, Messer Corso Donati mordeva il freno e attendeva con le sue riserve.

Speculare a quello fiorentino, ma non del tutto uguale, lo schieramento degli aretini. Essi non avevano né carri né masserizie; si erano mossi dalla città in tutta fretta non appena era pervenuta la notizia che i nemici stavano arrivando, non dalla via più diretta e agevole, cioè la valle dell’Arno, ma valicando il Passo della Consuma e passando sotto il naso ai ben muniti presidi ghibellini del Castello di Romena e di quello di Porciano in Casentino. Il conte Guido Novello li aveva accolti e aveva stabilito il punto di raccolta delle truppe presso il Monastero di Certomondo, a circa un miglio dalla piana di Campaldino, un gesto forse beneaugurante, in quanto il complesso monastico era stato fondato dalla sua famigla quasi trent’anni prima, per ringraziamento della vittoria conseguita a Montaperti sui guelfi fiorentini. Quasi a sfidare il nemico “mercante e bottegaio”, i feditori aretini erano preceduti da

Particolare del plastico. Schieramento dei fiorentini

un gruppo di dodici cavalieri, la crème de la crème delle milizie ghibelline, di cui facevano parte Bonconte da Montefeltro, il vescovo Guglielmino degli Ubaldini, l’altro Guglielmino, dei Pazzi (che indossava le insegne del vescovo, come abbiamo visto), Guidarello di Alessandro da Orvieto e altri. Il Conte era rimasto con le riserve presso la chiesa di Certomondo, non proprio a un tiro di freccia, mi verrebbe da commentare. Forse, come Bonconte, non era del tutto convinto delle possibilità ghibelline: i fatti gli daranno ragione.

La carica dei dodici paladini, e dei circa quattrocento cavalieri che li seguivano, con gli stendardi al vento, dovette costituire uno degli ultimi spettacolari assalti della cavalleria medievale. Belli e terribili nei loro sgargianti costumi, le lance in resta, percorsero al galoppo il breve tratto che li separava dalla schiera di Vieri de’ Cerchi. Come era prevedibile, nonostante fossero coraggiosi, i feditori fiorentini furono travolti da quella prima ondata. Gran parte di essi fu disarcionata e dovette continuare il combattimento da terra. Furono forse i balestrieri, protetti dai grandi palvesi da cui spuntavano le lance dei fanti, a salvare la situazione. La balestra era un’arma terribile, la più moderna di allora.

Le corte frecce, i quadrelli, scagliati da breve distanza, perforavano le armature meglio di una pallottola. I cavalieri aretini caddero anch’essi, si accesero zuffe individuali, la fanteria dei fiorentini resse l’assalto. Pian piano, secondo un disegno preordinato e seguendo la stessa tattica usata 1500 anni prima da Annibale per distruggere le legioni romane a Canne, da destra e da sinistra i fanti cominciarono un’azione di avvolgimento, mirando a tagliar fuori la fanteria nemica e a circondare la cavalleria. Tuttavia la situazione rimase incerta. I più forti cavalieri aretini si slanciarono verso il portastendardo della Repubblica fiorentina, Gherardo Ventraia Tornaquinci, che recava il vessillo donato dal re Carlo di Napoli. L’impadronirsi della bandiera del nemico avrebbe provocato forse il cedimento delle linee fiorentine per semplice scoramento; ma ciò fu evitato. Intanto erano caduti i due capitani francesi, l’uno ucciso e l’altro ferito, ma pure dalla parte avversa le perdite erano gravi. Non si sa in qual momento, anche Bonconte cadde nella mischia.

A decidere le sorti della battaglia fu un atto di insubordinazione. Nessuno è in grado di stabilire se spinto dal suo carattere turbolento oppure da una precisa intuizione militare, Corso Donati ordinò ai suoi cavalieri di attaccare. Portò così a compimento il tentativo che le fanterie stavano facendo, di tagliar fuori i fanti nemici accerchiandone la cavalleria. A quanto sembra, Guglielmino degli Ubertini, ormai allo scoperto perché, perduto l’elmo, il suo capo mostrava la tonsura da chierico, tentò una disperata azione guidando i suoi fanti, ma cadde coi suoi uomini. Così anche Guglielmo de’ Pazzi. Il Conte Guido Novello aveva notevole esperienza bellica, e quando vide la carica di Corso Donati, fece i suoi calcoli e decise che la partita era perduta. Le sue riserve non entrarono in azione, anzi, tornarono intatte tra le mura amiche del castello. A questo punto, la battaglia si trasformò in qualcosa di ancor meno nobile: una caccia spietata per catturare bottino e prigionieri, da restituire in caso di riscatto da parte delle famiglie.

Piana di Campaldino dal castello di Poppi

Dante narra che a un certo punto fu preso da terrore e cercò riparo oltre le salmerie. Ma per un ragazzo alla sua prima esperienza, probabilmente si comportò con decoro, reggendo la prima devastante carica dei dodici paladini guidati da Bonconte. Del quale, come sappiamo dal Canto V del Purgatorio, si persero le tracce. Il corpo del più valoroso cavaliere ghibellino non fu mai ritrovato. Le spoglie del vescovo Guglielmino, invece, furono portate nella chiesa di Certomondo ed ivi seppellite insieme alla sua spada, che non aveva comunque usato. Lo sappiamo con certezza solo da pochi anni, perché all’inizio del nuovo millennio nell’edificio sacro sono stati esumate le ossa di alcuni caduti.

Le perizie medico-legali hanno stabilito con ragionevole certezza che il corpo di uno di essi è proprio quello del vescovo-guerriero. I suoi resti e la sua spada sono stati trasportati con tutti gli onori nella cattedrale di Arezzo.

Fine peggiore toccò alla maggior parte dei prigionieri. Gettati nelle sordide prigioni di Firenze, solo parte di loro fu riscattata dalle famiglie o, comunque, rimessa in libertà. I più morirono e furono sepolti in quel luogo, alla periferia della città, che ancor oggi porta il nome di Canto degli aretini.

Castello di Poppi. Scale interne
Castello di Poppi. Scale interne

La battaglia ricostruita

Nel bellissimo castello dei Conti Guidi, a Poppi, che da solo vale una visita, in alcune sale è predisposta una mostra permanente, “L’Inferno di Campaldino”, il cui pezzo forte è costituito dal grande plastico che ricostruisce, fin nei minimi particolari, i due schieramenti contrapposti, quali erano schierati nella piana all’inizio della battaglia. Con lo stesso biglietto, il cui prezzo è piuttosto modesto, potrete accedere al maniero ed alla mostra.

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CC BY-NC-ND 4.0 1289: LA BATTAGLIA DI CAMPALDINO by L'Italia, l'Uomo, l'Ambiente is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License.