Recensione pubblicata su IUA n° 4, Anno VI, Aprile 2019
Il sipario si apre sulla scena di un’epica battaglia nel delta del Gange, dove il potente Generale Archidamo Stanatis fronteggia le forze dell’Impero rivale di Nippon. A molti chilometri di distanza, nella città di Lacedemone, sua figlia Nymphodora continua a sognare una rivoluzione urbanistica e architettonica che riporti alla luce del sole le abitazioni spartane confinate nel sottosuolo. Ed è vicino a lei, nel ruolo di schiava e amante, che ritroviamo Aracne, la splendida eroina di cui abbiamo letto le peripezie nel primo volume di questa saga, “Il sogno del ragno”. Chi ha conosciuto Aracne, sa che la cifra della sua esistenza è la fuga; se però nella storia precedente il suo viaggio verso la libertà era stato “una fuga per la vita”, in questo secondo volume, “Il regno del ragno”, l’evasione dalla sua condizione di ilota è indirizzata principalmente verso la “conoscenza”. Di se stessa, del suo destino, del mondo e dei suoi sogni. Ed è proprio all’inseguimento di un sogno e alla ricerca di una vita diversa, libera dalla ragnatela intrusiva di Sparta, che Aracne, con il suo bambino nato da una violenza, con Nymphodora, e con Doukas, studente di Architettura, parte verso le terre del Nord insieme a Ingmunde, maestro di norreno. Da cosa fuggono tutti quanti? Dalla schiavitù e dall’insensatezza. Che cosa cercano? Il volo della libertà, il fuoco dell’amore, la risposta ai loro sogni.
“Non si dovrebbe morire prima dei nostri
sogni” asserisce Lucius, lo schiavo di origine romana, quasi un Erodoto
ucronico, incaricato di registrare le gesta di Archidamo Stanatis contro i
samurai di Nippon, ma fermamente intenzionato a tramandare l’interpretazione
dei fatti oltre alla loro semplice amplificazione voluta dal potere a scopi
propagandistici; la frase è rivolta a un nuovo personaggio, la Seconda
Educatrice, una sedicenne che, a dispetto della sua funzione, relegata nella
periferia dell’Impero, ignora tutto della nascita e della morte, ignora in cosa
consista il potere dell’onnipresente apparato statale di Sparta, ne fraintende
persino le agghiaccianti crudeltà e conosce solo l’orizzonte ristretto
dell’Isola dei Donatori, dove accudisce i bambini predestinati alla donazione
degli organi e dove approdano i fuggitivi. Anche lei, lentamente e con fatica,
impara che nell’isola dove è vissuta – una deformazione macabra dell’Isola che
non c’è in cui i bambini sperduti vivevano una magica infanzia al fianco del
bambino per eccellenza, Peter Pan – non c’è posto per nulla che non sia
l’orrore. E l’orrore più grande, in tutti i tempi e in tutti i luoghi, non solo
nella dimensione ucronica di Sparta, è l’ignoranza di sé, delle proprie
origini, del mondo e dei suoi meccanismi.
Dunque il filo rosso che collega i personaggi, i loro pensieri, i dialoghi, è
la ricerca della verità in un mondo contrassegnato da letali menzogne e da
un’onnipresente violenza. E questo mondo emerge dalle pagine del libro con una nettezza
sorprendente: tra avventure e guerre, tra amore ed erotismo, tra colpi di scena
e inseguimenti, domina incontrastata la fantasia felicemente sfrenata
dell’Autore che ci dipinge un universo impensabile; come non ammirare
l’invenzione dei “mutanti thalassiani”, sintesi felice di fantascienza e di
classicità? Come non stupirsi per le “biobarche” trainate da delfini o per i
“saltadune”? In questo macrocosmo che oscilla tra rimandi alla storia, tra
allusioni al tempo presente – soprattutto per quanto riguarda la genetica e la
rivoluzione informatica -, tra misteri inquietanti, non ultimo quello che
riguarda le origini di Aracne, brillano di luce propria i momenti lirici e le
citazioni che sono un omaggio al mondo omerico.
Un romanzo vario, avvincente, dove all’intreccio dinamico si affianca la
malinconica riflessione sulla “vita derubata” dalla dittatura e
sull’espropriazione dei “sogni”.
Spicca, in ogni caso, la protagonista diventata madre, questa giovane donna che
ha tatuato sulla fronte il disegno di un ragno e che alla fine del libro
scoprirà la verità sulle proprie origini; lei, “dagli occhi di prato”, lei che
vive una sessualità senza consapevolezza, lei di cui seguiamo, passo passo,
l’itinerario di formazione:
“E Aracne non sapeva più nulla. Non capiva la pioggia. Non capiva il proprio
pianto e ancor meno il proprio riso. Non capiva se stessa e non capiva i sogni.
Forse per questo piangeva. Forse per questo rideva.”
Di nuovo prigioniera, in una detenzione peggiore di quella di Neapolis, peggiore di quella di Lacedemone, Aracne dà un appuntamento imperdibile ai suoi lettori nella prossima storia.
Non resta che aspettare l’uscita del terzo volume della saga per verificare se anche noi moderni, come l’immaginaria Aracne, siamo intrappolati nella ragnatela dei nostri stessi sogni. O in quella che tesse per noi Carlo Menzinger.
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