Murakami insegna che basta un espediente banale come una gita in bicicletta, alla spiaggia, con il padre per abbandonare un gatto, per cominciare a scrivere e iniziare un racconto.
Oggi il cielo è plumbeo, gli olivi del giardino grondano pioggia però ad un certo punto della mattinata non piove più. La Lucy è impaziente davanti al cancello e mi aspetta per la consueta passeggiata visto che da qualche giorno non si cammina per il maltempo.
Allora oggi si va sulla via del Carmine, sul crinale collinare sopra Anghiari dove in genere la nebbia si dirada, sulla strada asfaltata perché i sentieri sono impraticabili per il fango.
Per affrontare la tristezza della giornata durante il cammino tiro fuori dalla bisaccia uno dei miei rotolini, il più piccolo: è il passo di Ulisse del canto XXVI dell’Inferno, di cui vengono citati sempre i versi più significativi:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza…
Ma quando si isola un passo dal contesto spesso il significato cambia, anzi può diventare l’opposto, come in questo caso.
Inoltre Dante ci affascina e ci rapisce con la musicalità della lingua a tal punto che ci sentiamo appagati e non sentiamo la necessità di affrontare la fatica di approfondire il significato delle sue parole.
Allora nel cammino vado rimuginando cose che volevo sempre dire ma poiché ascoltatori non ce ne sono, provo a scriverle: è un commento a questo grande passo di poesia. Dunque mi metto in cammino con Ulisse. È lui che racconta il suo viaggio, rivolgendosi a Dante accompagnato nel suo peregrinare per l’inferno dal suo maestro Virgilio:
Quando mi dipartii da Circe, che sottrasse me più d’un anno là presso a Gaeta, prima che sì Enea la nominasse.
Quando riuscii a ripartire dalla maga Circe che mi aveva trattenuto per più d’un anno; dove era Ulisse? Al promontorio del Circeo, dove la maga aveva trasformato i suoi compagni in porci; esso spiccava alto sul mare su una zona allora piena di boschi, paludi e laghi costieri; quello che dai tempi di “Canale Mussolini” è l’agro pontino dove c’è Latina e Sabaudia, sotto Roma, poco sopra Gaeta che Enea chiamò così in onore della sua nutrice che morì proprio in questo luogo durante l’esodo per mare che condusse Enea dalle rovine fumanti di Troia fino alle coste del Lazio, come ci racconta Virgilio nell’Eneide.
né dolcezza di figlio, né la pietà del vecchio padre… [né il ricordo del figlioletto Telemaco né la pietà verso il padre ormai vecchio, che aveva lasciati nell’isola di Itaca];
….né il debito amor lo qual dovea Penelope far lieta… [né il dovuto amore coniugale che doveva far lieta Penelope]
vincer poter dentro di me l’ardore… [poterono vincere il desiderio]
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto e delli vizi umani e del valore… [che mi prese di conoscere il mondo ed i vizi e le virtù degli uomini].
ma misi me per l’alto mare aperto, sol con un legno e con quella compagna picciola dalla qual non fui diserto. [Perciò mi diressi non alla mia isola, ad Itaca, lungo le coste dell’Italia meridionale ma verso il mare aperto, soltanto con una navicella, sol con un legno, e con quel gruppo di compagni dai quali non fui mai abbandonato].
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna [vidi varie terre fino alla Spagna];
fin nel Morrocco, e l’isola dei Sardi, [fino al Marocco e fino alla Sardegna];
e l’altre che quel mare intorno bagna… [e le altre isole bagnate dal Mediterraneo, la Corsica, le Baleari].
Una cosa che comincia a stupire è la precisione geografica del racconto di Dante.
Io e i compagni eravam vecchi e tardi [Io e i miei compagni eravamo ormai stanchi e affaticati da tante peregrinazioni];
quando venimmo a quella foce stretta dov’Ercole segnò li suoi riguardi, a ciò che l’uom più oltre non si metta… [quando giungemmo a quello stretto, dove Ercole pose le sue colonne per avvertire l’uomo a non andare oltre lo stretto di Gibilterra, limite del mondo fino allora conosciuto].
dalla man destra mi lasciai Sibilia… [La navicella è di fronte allo stretto di Gibilterra; a destra c’è la penisola iberica con la città di Siviglia].
dall’altra già m’avea lasciata Setta. [dall’altra parte i naviganti si erano lasciati Setta].
Strano, che cos’è questo Setta? Basta guardare le note al testo dell’Inferno commentato da Natalino Sapegno su cui ho studiato al Liceo alla fine degli anni’60; mi sembra di rivedere, come fosse ora il professore di lettere che recitava i versi di Dante nel silenzio assoluto e nel timore reverenziale della classe.
Dunque Setta è nome antico dell’odierna città di Ceuta che si trova nella parte africana dello stretto, appartenente alla Spagna; tutt’intorno c’è il confine con il Marocco.
Ceuta la conosciamo bene perché è il luogo dove i migranti hanno cercato varie volte di forzare il blocco costituito da un’alta rete metallica per passare dal Marocco alla Spagna e quindi in Europa.
Ulisse e i suoi compagni sono dunque giunti allo stretto di Gibilterra. Ricordiamo un momento che l’inizio dell’Odissea aveva colto Ulisse trattenuto dalla ninfa Calipso (nascosta in greco antico) nell’isola di Ogigia.
Ma dov’e’ quest’isola di Ogigia? Lontana e remota tanto che Mercurio dai calzari alati, messaggero degli dei, nel presentarsi alla ninfa dice di essere venuto quaggiù controvoglia, “e chi volentieri traverserebbe tanta acqua marina, infinita?, [così nella traduzione italianizzata di Maria Grazi Ciani, proposta dalla BUR].
Al mercatino di Memorandia delle cose vecchie ad Anghiari, ogni seconda domenica del mese ci sono diversi stand di vecchi libri lungo la galleria e sotto il loggiato sotto la casa di Duccio, che da sulla piazza. Vi ho comprato una vecchia copia dell’Odissea stampata a Firenze nel 1954, nella versione di Ippolito Pindemonte che fu data alle stampe la prima volta a Verona nel 1822; è un testo
in cui hanno studiato generazioni di studenti; appare superato perché pretendeva di tradurre poesia in poesia di tutt’altro ritmo e lingua e mancava del testo greco a fronte però è dotato di bellissimi commenti e illustrazioni.
È un vecchio libro con la copertina di cartone, che odora di polvere, con molte sottolineature e pieno di fascino. Contiene anche studi di Ettore Romagnoli che ricostruisce, per quanto possibile, trattandosi dell’Odissea poema che mescola realtà, fantasia e mito, il percorso di Ulisse nelle sue peregrinazioni nel Mediterraneo.
Perejil (prezzemolo in spagnolo), presso Gibilterra sembra proprio l’isola della divina Calipso” isolotto nascosto e disabitato fra le insenature della costa africana, nello stretto di Gibilterra. E poi Omero ne fa una bellissima descrizione: intorno alla grotta un fitto bosco di ontani, pioppi e cipressi, nidi d’uccelli, sorgenti d’acqua, teneri prati.
Dunque l’isola di Ogigia è un isoletta proprio nel mezzo dello stretto di Gibilterra; Ulisse ha perso tutti i suoi compagni. Da lì inizia il suo viaggio di ritorno a casa su una zattera costruita con l’aiuto di Calipso che non può opporsi alla sua partenza, perché così hanno deciso gli dei.
Dante invece immagina che Ulisse prosegua il suo viaggio con i suoi compagni oltre le colonne d’Ercole. Così Ulisse prosegue il suo racconto:
O frati, dissi, che per centomila perigli siete giunti all’occidente; a questa tanto picciola vigilia de’ nostri sensi ch’è del rimanente… [Compagni miei che dopo aver attraversato infiniti pericoli siete giunti con me fino alla estremità occidentale del mondo conosciuto, per quel poco che ci resta da vivere];
non vogliate negar l’esperienza di retro al sol, del mondo senza gente… [Non vogliate negarvi l’esperienza di andare dietro il corso del sole cioè verso l’ovest verso un mondo ignoto e deserto];
Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza…
e questi sono i versi più famosi: l’uomo è fatto non per vivere nella brutale ignoranza ma per perseguire virtù e conoscenza.
Teniamo presente però che Dante mette Ulisse nell’Inferno, nella cerchia dei fraudolenti, cioè di coloro che con l’astuzia della parola riescono a convincere gli altri ad azione malvagie: con l’inganno infatti Ulisse insieme a Diomede aveva trafugato il Palladio dedicato ad Atena dalla rocca di Troia. Con l’inganno del cavallo aveva ordito la distruzione di Troia. Dunque con l’inganno e l’astuzia delle sue parole riesce a convincere i suoi compagni ad andare oltre i limiti della conoscenza, oltre il limite consentito agli uomini, fino alla distruzione.
Ulisse usa il miraggio della conoscenza per togliere ogni dubbio ai suoi compagni. Ma del resto il serpente in Genesi 3:4,5 non aveva usato parole altrettanto astute per convincere Eva a mangiare il frutto proibito?
Allora il serpente disse alla donna: sicuramente non morirete. Infatti Dio sa che il giorno stesso in cui mangerete il frutto di quell’albero i vostri occhi si apriranno e voi sarete come lui, conoscendo il bene e il male.
Dante ci presenta Ulisse in modo molto diverso da come viene presentato nell’Odissea desideroso di tornare alla sua isola e alla sua patria, al focolare domestico. Il che avvalora l’ipotesi che non conoscesse il poema ma che conoscesse la storia di Ulisse da altre fonti.
Sulla scia di Dante, Ulisse è stato mutato in eroe moderno alla ricerca ad ogni costo della conoscenza. Ulisse esorta poi i suoi compagni con un discorso breve ma efficace, tale da renderli così impazienti di proseguire il viaggio verso l’ignoto:
Lì miei compagni fec’io si aguti, con questa orazion picciola, al cammino, che a pena poscia li avrei ritenuti. [che non sarebbe stato capace di trattenerli].
E, volta nostra poppa nel mattino… [E rivolta la parte posteriore della nave
verso dove sorge il sole, ad est e quindi con rotta verso l’ovest…]
de’ remi facemmo ali al folle volo… [con i remi, agili come ali che fanno volare
ci avventurammo nel folle volo, al di là dello stretto, al di là delle colonne d’Ercole];
sempre acquistando dal lato mancino… [volgendo la rotta verso sinistra cioè scendendo lungo le coste dell’Africa].
Dante dimostra di conoscere bene i resoconti dei navigatori fiorentini che si avventuravano nei loro viaggi di esplorazione. Non dimentichiamo che Colombo usò le carte del Toscanelli geografo e scienziato fiorentino per intraprendere il suo viaggio al di là dell’Atlantico e che fece l’ultimo scalo alle Canarie, come risulta dal suo giornale di bordo. Inoltre il navigatore fiorentino Amerigo Vespucci dette il suo nome all’America. Ma Dante ci stupisce ancora:
Tutte le stelle già dell’altro polo vedea la notte e il nostro tanto basso che non surgea fuor del marin suolo… [La notte vedevamo le stelle dell’altro polo, cioè, dell’emisfero sud della terra, la croce del Sud; il nostro emisfero nord, la stella polare non si vedeva più perché era ormai scomparso all’orizzonte, cioè avevamo superato l’equatore in direzione sud, lungo le coste africane].
Cinque volte racceso e tanto casso lo lume era di sotto dalla luna, poi ch’entrati eravamo nell’alto passo… [Erano passate cinque lunazioni cioè cinque mesi, da quando avevamo superato lo stretto di Gibilterra].
…quando n’apparve una montagna, bruna per la distanza, e parvemi alta tanto quanto veduta non n’aveva alcuna… [Quando ci apparve una montagna scura per la distanza e così alta che non avevo mai visto una uguale. Una terra lontanae sconosciuta, al di là delle “Colonne d’Ercole”, sotto l’equatore.
Consulto il mio Atlante geografico del mondo. Trovo la carta dell’Africa. Scorro verso sud lungo la costa atlantica, dallo stretto di Gibilterra, scendo sotto le Canarie e Capoverde, all’altezza del Senegal, poi sotto l’equatore. Il mare diventa oceano aperto punteggiato di rare e microscopiche isole: Sant’Elena, Ascensione. Nel tratto più stretto dell’Atlantico, proprio al margine ovest della carta c’è un triangolo di terra con scritto Capo São-Roque Brasile. Ma Dante che è uomo del Medioevo ci vuole dire che là in fondo c’è una terra mitica e irraggiungibile che l’uomo si deve guardare bene dal violare, o molto probabilmente fa riferimento alla Montagna del Purgatorio che come in un sogno gli appare alta e lontana e che si appresta a risalire, seguendo il suo maestro Virgilio…
ei primo ed io secondo, dopo essere usciti, a riveder le stelle.
Così riprende il suo racconto.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto… [Noi esultammo ma subito le cose si ritorsero contro di noi];
poiché dalla nuova terra un turbo nacque… [che della nuova terra nacque un turbine]. A quale nuova terra Dante si riferisce, bisognerebbe chiederlo a lui.
e percosse del legno il primo canto… [che andò a colpire la prua della nave];
Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque: alla quarta levar la poppa in suso, e la propria ire in giù, com’altrui piacque… [Tre volte la nave girò su se stessa e alla quarta si inabissò come Dio volle];
Infin che il mar fu sopra noi richiuso… [fino a che il mare non si rinchiuse sopra di noi].
Questa è la punizione per Ulisse che con l’inganno ha convinto i suoi compagni a sfidate l’ignoto e oltrepassare i limiti del mondo conosciuto fino alla distruzione. Così il naufragio di Ulisse ed i suoi compagni starebbe a significare ch’essi sono destinati a rimanere condannati nell’Inferno senza poter raggiungere la montagna della salvezza.
È una conclusione che ricorda quella che Herman Melville dà al suo romanzo Moby Dick la balena bianca che rappresenta l’ignoto e l’inafferrabile; gli uomini dell’equipaggio sono terrorizzati dalla diabolica balena bianca ma non riescono a resistere al magnetismo del capitano Acab e lo seguono nella sua avventura fino ad inabissarsi in una tragica fine; così nella traduzione di Cesare Pavese:
E allora cerchi concentrici afferrarono anche la lancia solitaria e tutto l’equipaggio e ogni remo fluttuante e ogni palo e, facendo girare le cose vive e quelle inanimate, tutto intorno in un vortice, trascinarono anche il più piccolo avanzo del Pequod fuori vista.
Così un passo dopo l’altro a 2 o 4 zampe lungo la via del Carmine, io e la Lucy abbiamo superato la maestà e siamo sulla spianata su cui davanti a sinistra verso nord-ovest si vedono i monti Rognosi fino al Castello di Montauto, a destra, ad est la pianura Tiberina delimitata dagli aspri monti azzurrini della catena dell’Appenino fra l’Alpe della Luna e Bocca Trabaria.
Rimuginando, un pensiero dietro l’altro, come sempre siamo giunti fino all’albero, una grande quercia che si para di fronte a noi lungo la strada. È una pianta secolare, ben radicata, che ha resistito a tutti gli assalti: auto sfreccianti, ossido di carbonio, potature azzardate, temporali, tempeste di vento, freddo e gelo.
Le porgiamo un inchino e un saluto; tutte le volte abbraccio questo albero ma il mio abbraccio non è sufficiente a cingerlo completamente. Sento che ospita tanti esseri viventi e che all’occorrenza sarebbe disposto ad ospitare anche me nella sua aurea.
Appoggio la guancia sulla sua corteccia grezza, sento il suo calore, il suo odore secco e il suo respiro. Sento che ricambia il mio abbraccio, mi accoglie con i suoi rami e sento che vive.
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