Articolo pubblicato su IUA n° 1, Anno IX, Gennaio 2022

Nella primavera di quest’anno l’encefalogramma del lavoro legislativo del Parlamento ha registrato un sussulto sorprendente, ma quasi inosservato fra quelli generati dai provvedimenti per la pandemia, la ripresa economica e l’utilizzo dei soldi dell’Europa. Eppure si è trattato di un atto che può essere decisivo in chiave futura, una vera e propria conditio sine qua per trattare convenientemente i problemi del Paese, che hanno tutti un fattore comune: la distanza fra amministratori e amministrati e l’eccesso di burocrazia. Parliamo del disegno di legge[1], presentato nella primavera di quest’anno, di modifica di quell’articolo 9 della Costituzione[2], considerato esemplare per la tutela dei beni culturali: finora un tabù anche solo pensare di modificarlo. La proposta ora dimostra che modificare è pensabile, aprendo perciò uno scenario del tutto nuovo: non tanto per i contenuti, non proprio sulfurei visto che vanno a incorniciare di parole d’ordine correnti una materia, quella dell’ambiente, già riconosciuta prioritaria nell’azione di governo, quanto per lo spiraglio verso una salutare riflessione sui malfunzionamenti delle politiche per i beni culturali, pur essendo l’Italia da sempre  un esempio in materia a livello mondiale.

A questo punto il lettore dirà, non senza ragione: “Con tutti i problemi che abbiamo, che bisogno c’è di mettere in discussione ciò che è considerato esemplare?”. Si risponde che la materia dell’art. 9 (la ricerca, i beni culturali e, se passa il disegno di legge, l’ambiente) è quella in cui nella pratica attuativa i nodi denunciati, appunto il tasso di burocrazia e la distanza fra amministratori e amministrati, sono massimi: distanza che, paradossalmente, l’integrazione pro ambiente rischia di aumentare con la moltiplicazione di uffici facilmente prevedibile in assenza di una visione complessiva. Pertanto essa va considerata la chiave  primaria per capire le ragioni dei tanti malfunzionamenti della macchina amministrativa generale e i danni causati dal  modello di sviluppo corrente, quello dell’infrastrutturazione invasiva e dell’espansione e del consumo di suolo incontrollati, dannosi per la vita, che continua a imporsi malgrado se ne invochi il superamento. Un dibattito serio e approfondito è dunque la premessa necessaria perché la transizione ecologica, compresa nel piano nazionale di ripresa e resilienza (il PNRR al centro della contesa politica attuale), sia apprezzabile nei risultati concreti e non solo nella conformità burocratica.

A questi fini è necessario partire dalla massima chiarezza sui caratteri essenziali del processo legislativo e di assetto istituzionale riguardanti il patrimonio paesaggistico e monumentale nell’Italia postunitaria, e le svolte fondamentali che ne hanno contrassegnato i contenuti.

Qui è ineliminabile un primo rilievo: tutte le svolte sono avvenute nella permanenza di una stessa matrice politica e culturale, riferibile alla circostanza incontrovertibile che l’esemplarità italiana si è strutturata, sia prima sia dopo l’unità, all’interno di regimi autoritari e in quest’ottica è rimasta anche nell’Italia democratica. Infatti, la Costituzione italiana, nata dall’incontro e dal compromesso fra le culture antifasciste, la cattolica la socialista la repubblicana e la liberale, per quanto riguarda il patrimonio culturale si riallaccia proprio alla tradizione liberale che ha governato il paese dall’unità all’avvento del fascismo e che ha informato le leggi fondamentali del 1939, le famose leggi “Bottai”, la legge 1089 per le cose d’arte e la legge 1497 per le bellezze naturali. Queste leggi hanno attraversato la guerra, la fine del regime, il passaggio dalla monarchia alla repubblica, hanno influenzato la Costituzione, continuando a operare a lungo anche nell’Italia repubblicana fino alla riforma generale del 2004 (decreto legislativo n. 42 del 2004 meglio noto come “Codice Urbani”), che tuttavia ne ha conservato lo zoccolo duro: il carattere elitario e la propensione burocratica.

Vediamo in dettaglio. La legislazione italiana per i beni culturali nasce all’indomani dell’unità con l’esigenza primaria di avviare un processo di unificazione rispetto ai provvedimenti di tutela, inevitabilmente molto frammentati, dell’Italia preunitaria (SCHEDA 1).

Dapprima lentamente e faticosamente, poiché la tutela dei monumenti non era nelle corde dei primi governi postunitari[3], il processo di unificazione legislativa centrò gli sforzi sostanzialmente su tre problemi: gli oggetti che debbono rientrare nella tutela, i criteri di individuazione e classificazione, gli strumenti attuativi della tutela. Bisognerà aspettare il 1902 per avere la prima legge per la tutela, cui seguì una serie di provvedimenti di raffinamento e di natura organizzativa per approdare infine alle citate leggi Bottai del 1939 (Figg 1-2-3); come si è detto, sui loro principi fu basata la formulazione dell’art. 9 della Costituzione, quindi rimasero in vigore fino a quando nell’ultimo quarto del vecchio millennio e nel primo lustro del nuovo non si mise mano a un processo di revisione approdato nel 2004 al citato “Codice dei beni culturali e del paesaggio” che ne ampliò obiettivi, contenuti, strumenti e procedure (per l’elenco dei provvedimenti dall’unità ad oggi vedi SCHEDA 2).

Immagine 2

Immagini 1 e 2 – Roma, Piazza S. Pietro, un effetto clamoroso della politica degli sventramenti, malgrado la legislazione vincolistica. A sinistra prima della demolizione dei borghi (1936), a destra dopo, con via della Conciliazione, alterando irreversibilmente la concezione spaziale del Bernini. Per capire il danno valga un ricordo d’infanzia di Alberto Sordi: «Avevo quattro anni quando vidi per la prima volta San Pietro e fu proprio per il Giubileo del 1925. Ero in compagnia di mio padre, venivamo da Trastevere, dove ero nato in via San Cosimato e dove vivevo con la mia famiglia. Arrivammo percorrendo i vicoli, che poi furono distrutti, di Borgo Pio: un ammasso di casupole, piazzette, stradine. Poi, dietro l’ultimo muro di una casa che si aprì come un sipario, vidi questa immensa piazza. Il colonnato del Bernini, la cupola. Un colpo di scena da rimanere a bocca aperta. Ecco, quello che ricordo di più di quel Giubileo fu questa sorpresa».

Siena, Piazza del Campo, capolavoro di spazio pubblico urbano, grazie ad una politica comunale da sempre orientata alla bellezza

La necessità di una revisione era connaturata al cambiamento di regime, dalla monarchia alla repubblica, dunque di riferimenti culturali, e alla consapevolezza della complessità dei problemi del patrimonio culturale all’interno della ricostruzione postbellica prima e della tumultuosa espansione edilizia poi. Pertanto si provvide, fra gli entusiasmi riformatori che negli anni Sessanta coinvolsero tutti i settori, a istituire una specifica Commissione, nota come Franceschini (da non confondere con l’attuale ministro) dal nome del suo presidente, con il compito di sviscerare tutti gli aspetti, di principio, storici e culturali, del patrimonio paesaggistico e monumentale ai fini della riforma della legislazione. Tuttavia, malgrado il grosso lavoro di elaborazione e di studio che produsse un ponderoso documento in tre volumi (“Per la salvezza dei beni culturali in Italia”, 1967), la Commissione non arrivò a risolvere in maniera coerente ed esaustiva i numerosi nodi problematici generati dall’incrocio di una cultura rétro con le quantità e gli squilibri dello sviluppo territoriale del dopoguerra. Per rendersi conto dell’impossibilità dei diversi membri della commissione di giungere a una sintesi efficace basta leggere la dichiarazione XL della Commissione, dedicata ai centri storici, con cui si diede la seguente definizione di questi particolari e primari beni culturali:

“Sono da considerare centri storici urbani quelle strutture insediative urbane che costituiscono unità culturali o parte originaria e autentica di insediamenti che testimoniano i caratteri di una viva cultura urbana”.

Una tautologia che forse esclude solo i cimiteri e i centri abbandonati, e comunque non utilizzabile per interpretare e progettare nei singoli casi. In sostanza la Commissione si limitò ad affermare che i centri storici andavano inseriti fra i beni culturali, evidenziandone la natura di complesso avente valore unitario, rinunciando ad affrontare direttamente la questione urbanistica.Rinunciando cioè ad elaborare e proporre criteri di lettura identitaria autentica delle matrici di formazione spaziale dei singoli centri storici che fossero utilizzabili in sede di programmi e di progetti di intervento coerenti con i valori specifici presenti[4]. Nel frattempo era naufragata anche la grande riforma urbanistica affidata a Fiorentino Sullo, defenestrato in seguito al terrore di perdere la casa se la riforma fosse passata, sparso a piene mani fra i proprietari attraverso tambureggianti e falsificatrici campagne mediatiche promosse dai palazzinari. Uno dei pochi risultati veramente efficaci conseguì all’incontro della Commissione con gli amministratori di allora del Comune di Aquileia, per affrontare l’annosa questione della valorizzazione e tutela archeologica del centro romano della bassa friulana, anche in vista della promulgazione dell’unica Legge speciale nazionale – la n. 121 del 1967 cosidetta Marangone – per Aquileia e la Via Romea.


Ma, a parte questo evento, una volta conclusi i lavori seguì, come è fatale dopo i grandi entusiasmi, un periodo di stanca, specchio del riflusso, dell’involuzione della politica e delle tragedie postsessantottine.

Passarono dieci anni dall’istituzione della Commissione per avere una prima svolta di carattere istituzionale, dovuta però all’impegno di Giovanni Spadolini e al suo decreto legislativo, il n. 657 del 1974 (sostanzialmente svincolato dal contributo della Commissione Franceschini),  con cui fu istituito il  Ministero per i Beni culturali e ambientali, che assorbiva le competenze del Ministero della Pubblica Istruzione e di altri uffici sparsi fra vari ministeri. Nel frattempo però continuavano a restare in vigore le leggi del 1939, sia pure integrate da importanti provvedimenti settoriali (Legge n. 431/1985, la “legge Galasso”, per le fasce di rispetto fluviale,  e dalla Legge n. 59/ 1997, la “legge Bassanini”, che introdusse in Italia la definizione di “beni culturali”). Alla riforma legislativa complessiva si arrivò solo trent’anni dopo l’istituzione del nuovo Ministero (che nel frattempo aveva cambiato due volte nome). Anche in questo caso si ricorse a un decreto legislativo, n. 42 del 2004, il più volte citato “Codice Urbani” dal noto ministro dell’epoca.

Nel breve spazio di quest’articolo non possiamo approfondire i contenuti delle nuove disposizioni (peraltro già oggetto di modifiche e di ulteriori proposte di revisione), se non per osservare che, malgrado le numerose novità nelle definizioni, nelle procedure e negli strumenti, fra i quali l’introduzione dei piani paesistici regionali, il provvedimento rimane comunque nel solco delle matrici socioculturali ottocentesche, elitarie e burocratiche, come risalta dalla sostanziale permanenza del nodo principale: il mancato coordinamento, all’interno di un indirizzo programmatico e progettuale complessivo, fra le varie branchie dell’amministrazione dello stato e l’amministrazione dei beni culturali, rinchiusi nei rispettivi perimetri istituzionali in un’assoluta disomogeneità di culture, obiettivi, metodi, strumenti, risorse e capacità di qualità progettuale e di spesa, rispetto a cui i cittadini restano sostanzialmente emarginati e sballottati nella conflittualità degli opposti interessi, non avendo il conforto di una visione omogenea e condivisa a tutti i livelli delle identità autentiche dei loro luoghi.

Pertanto, non c’è da meravigliarsi se dopo tanti studi e atti legislativi plurisecolari (se consideriamo anche quelli, importantissimi, dell’Italia preunitaria), le politiche per i beni culturali, al di fuori dei casi di vertice, continuano a produrre risultati parziali, spesso controproducenti, e tuttora prevaricati dal modello di sviluppo economico consolidato, senza riuscire a imporsi come fattore trainante di un modello alternativo sostenibile. I piani paesistici introdotti dal Codice sarebbero stati una buona opportunità per un cambiamento di verso nella generalità del territorio, ma si sono rivelati un’occasione persa, non avendo finora dimostrato la forza di proporsi come strumenti centrali per questo obiettivo. Possiamo capirlo meglio con qualche accenno essenziale a come i piani paesistici sono concepiti dalla legge.

Il piano paesistico del Codice si articola, al nocciolo, in una parte istituzionale e in una parte strategica: la prima contempla la “copianificazione” fra Ministero e Regione, ed è basata sulla ricognizione dei beni assoggettati o da assoggettare a vincolo e sull’elaborazione delle normative da applicare al loro interno. La seconda riguarda l’individuazione dei sistemi “strategici”da assoggettare a misure di salvaguardia e valorizzazione: reti ecologiche, mobilità lenta, città storiche, borghi tradizionali, peculiarità idrogeomorfologiche. Il disegno risultante da un approccio siffatto è un territorio di aree vincolate a macchie di leopardo normate e controllate rigidamente dalla Soprintendenza, all’esterno delle quali si incunea la maggior parte del territorio restante con le previsioni “strategiche” citate. Ma le previsioni del piano paesistico per queste aree, a differenza delle aree sopracitate “copianificate” e vincolate, non hanno efficacia operativa, essendo generiche e non riferite al piano catastale. Per ottenerla, devono essere recepite dai piani regolatori comunali. Senonchè esse pongono ai comuni problemi applicativi dovuti a una ricorrente insufficienza culturale e metodologica delle indagini e delle interpretazioni. Non senza osservare che in qualche comune questi problemi non ci sono, ma non per una particolare e fortunata qualità dell’elaborazione progettuale: semplicemente perché la Regione ha demandato al comune il compito di precisare i contenuti paesistici in sede di conformazione del comune stesso al piano regionale. L’analisi potrebbe proseguire portandoci ad altre scoperte, ma quanto osservato finora basta per mettere a fuoco il carattere saliente del piano paesistico regionale: il doppio binario di governo, connotato di disomogeneità e dubbi interpretativi, facendone uno strumento di carattere burocratico mancante di visione complessiva e con dei vuoti. Vediamo come tutto ciò si traduce in un caso emblematico del Friuli Venezia Giulia, Aquileia: città portuale a distanza ottimale dalle risorgive e dal mare, capitale della X Regio romana, capitale del Patriarcato nel Medioevo, centro di diffusione della cristianità, matrice della centuriazione tuttora leggibile nel territorio friulano, quasi tre secoli di storia archeologica alle spalle, centro storico-archeologico primario, punta di diamante dello sviluppo turistico e culturale interno alternativo ai poli balneari e montani. In un tale comune l’assessore regionale competente ha scelto di affidare al comune la responsabilità della pianificazione paesistica al di fuori delle aree archeologico-monumentali copianificate, cosa che si sarebbe dovuta fare in occasione della conformazione al piano regionale. Si noti che per la conformazione la Regione ha stanziato cospicui fondi in favore dei comuni. Il comune di Aquileia, tuttavia, non ne ha fatto richiesta, pertanto il territorio comunale per la massima parte è tuttora assoggettato  alla normale zonizzazione di piano regolatore, dove predominano le zone agricole, com’è naturale in una zona di bonifica. Così Aquileia, madre culturale della regione, è tuttora priva di piano paesistico, pur sapendo che tutto il territorio e non solo le zone vincolate (centro storico e qualche altra piccola area) è interessato da stratificazioni archeologiche.

Ebbene, in questo quadro di sostanziale assenza di visione si è inteso avviare ugualmente a soluzione con un progetto settoriale un vecchio problema che andrebbe invece studiato in un progetto complessivo: l’eliminazione del traffico di attraversamento dalla strada centrale, coincidente con il cardo massimo della centuriazione. La soluzione è affidata a una variante esterna, una  superstrada di sei chilometri che spacca in due la bella campagna a frutteti e seminativi fra Aquileia e il confinante comune di Fiumicello (Figg. 4-5). Appare evidente che, per assicurare l’arrivo a Grado senza intoppi, si fa un danno ambientale e paesaggistico e si emargina Aquileia senza nessun apprezzabile vantaggio in termini di valorizzazione culturale e turistica, ma anzi prefigurando un nuovo asse edificato che toglierebbe qualità e prestigio al paesaggio storico e naturale dell’area, omologando il contesto all’immagine standard di un’espansione periferica. Senza addentrarsi nei particolari circa l’impatto negativo di un progetto superfluo e costoso che ripropone le vecchie prassi legate al massimo guadagno attraverso la linea più debole, in palese controtendenza rispetto alle istanze per un nuovo modello basato sulla sostenibilità, è significativo in questa sede sottolineare l’argomento principale (gli altri sono inconsistenti, a cominciare dai dati statistici sui flussi di traffico, che in realtà dimostrano la sproporzione fra risorse impiegate e dimensione effettiva del problema)  con cui nella relazione tecnica si sostiene, quasi trionfalmente, la fattibilità dell’opera: non c’è alcun vincolo paesistico! Superfluo ogni commento.

Immagine 4: Aquileia con la campagna circostante a seminitavi e frutteti
Immagine 5 – La campagna circostante Aquileia spaccata in due dalla Variante Est

A questo punto possiamo chiudere il cerchio del nostro ragionamento, chiedendoci cosa si può fare per una modernizzazione culturale e operativa del governo del patrimonio paesaggistico e monumentale, che ripristini il primato del progetto di qualità e si ponga al centro di un nuovo modello di sviluppo improntato alla sostenibilità, in cui pensate notturne come la variante est di Aquileia, e altre di pari genitori altrove,  non siano neanche concepibili.

La risposta è complessa, perché non si tratta solo di modificare qualche legge, ma di incidere su un quadro politico-amministrativo storicamente consolidato nella politica postbellica, composto di istituzioni, di uffici  e di persone, di cui le leggi sono lo specchio. Con la complicazione che la matrice autoritaria di queste, oggi, si sta degradando, nella persistente mancanza di una cultura progettuale agganciata all’identità dei luoghi, in una deriva diversa e peggiore, dovuta alla spalmatura del governo dei beni culturali fra la Soprintendenza e la Regione, nuova protagonista in virtù dei finanziamenti che può mettere in campo. I comportamenti conseguenti non implicano, nell’evidenza dei fatti, un’evoluzione verso opere di qualità, ma una ritualità di consultazioni politico-burocratiche che giustificano con sofismi motivazionali, parenti stretti di ignoranza e incapacità interpretativa, progetti dannosi per l’identità dei luoghi, inducendo in confusione i cittadini, emarginati da un’effettiva partecipazione, salvo rare occasioni promosse da amministratori illuminati.

Lavorare sulle leggi è comunque un punto di partenza necessario, se non altro perché costringe a una messa a punto della cultura di riferimento che si vuole assumere. Meglio se con il sostegno delle buone pratiche amministrative e di qualche progetto esemplare. Con l’auspicio che, in un generale rifiuto delle persistenti procedure settoriali e oggettuali ancora in essere, si avvii nelle sedi appropriate un processo di revisione finalizzato all’obiettivo principale che ogni amministratore dovrebbe avere, la conservazione e la valorizzazione in ogni parte del nostro territorio, concludo questo articolo accennando ad alcuni requisiti a mio avviso fondamentali per un tale processo.

Va da sé, per quanto detto, che occorre partire dalla Costituzione, per svincolarla dalle antiche matrici culturali, che sono: restrizione del patrimonio paesaggistico e monumentale a una quota parte del territorio nazionale, ottica di intervento principalmente preordinata alla tutela e dunque al vincolo, creazione di un’amministrazione separata sovraordinata alla cittadinanza, doveri dei cittadini riferiti all’economia ma non al territorio, considerazione di quest’ultimo come un settore e non come il fattore centrale della vita del Paese. Ne conseguono i seguenti requisiti di modifica:

– sede di valori e oggetto di governo qualificato è tutto il territorio nazionale articolato secondo le identità autentiche locali;

–  i valori del patrimonio paesaggistico e monumentale sono al centro della programmazione nazionale e, per li rami, di quelle subordinate, in modo da instaurare un nuovo modello di sviluppo economico e sociale improntato alla sostenibilità;

– gli uffici preposti ai beni culturali sono strumenti della programmazione generale e non un’amministrazione separata[5];

– fra i diritti e i doveri dei cittadini vanno inclusi anche la partecipazione alla conservazione e all’incremento della bellezza e della sicurezza dei propri luoghi, sulla base della piena consapevolezza della loro identità.

Passando alle leggi ordinarie, a cominciare dal Codice dei beni culturali, occorre superare il doppio binario istituzionale-strategico e i conseguenti burocraticismi, disinteressati nei fatti all’identità dei luoghi, al di là dei principi dichiarati, sfrondando l’articolato di tutte le ridondanze e inserendo il principio che fra le indagini di base di ogni progetto di intervento va inserito lo studio selettivo delle visioni del mondo in cui i luoghi sono stati formati, all’interno di una linea strategica di medio-lungo periodo, rifiutata dalle attuali amministrazioni[6] .

Dalla revisione delle norme costituzionali e ordinarie dovrebbe conseguire, infine, una radicale revisione di obiettivi, metodi e contenuti degli strumenti tecnici e amministrativi: piano paesistico regionale, piani regolatori, procedure di vincolo, ecc., che formerebbero materia di un altro articolo. Qui mi limito a richiamare due nodi primari: il livello di lettura e di interpretazione del territorio e delle sue parti, che nel piano paesistico è sviluppato in quantità ma non in profondità, dando luogo a normative poco calzanti, e il coordinamento fra beni culturali e urbanistica. Elevare il livello culturale su questi punti consentirebbe di evitare errori irreversibili e di far sì che i progetti di intervento siano esaurienti.

                                                                                                                      Amerigo Cherici

Postilla importante. Quanto detto sulle matrici sostanzialmente autoritarie dei beni culturali non vale per le situazioni di emergenza, come il Covid. Vaccinarsi e dotarsi del green pass e seguire tutte le precauzioni è una necessità per il bene di tutti e in nessun modo, se non da parte di ingenui e dei cinici che li manovrano, possono considerarsi lese le libertà costituzionali. Se il bosco brucia, comandano i pompieri, e nessuno può proclamare che l’incendio non esiste ed entrare tra le fiamme in nome della libertà.


SCHEDA 1

Il patrimonio monumentale nell’Italia preunitaria. Appunti

Già Raffaello, nel 1519, denunciava a papa Leone X il degrado e la distruzione dei monumenti antichi per ricavarne calce e pozzolana per i nuovi edifici, sollecitando al pontefice una politica di salvaguardia dei monumenti rimasti. Problema antico, che si ritrova, ancora prima, ad Aquileia dove, già nell’VIII secolo, se ne lamentava il Patriarca Paolino con un carme intitolato appunto De distrutione Aquilegiae numquam restituendae. Ma l’importanza dei monumenti era riconosciuta anche nell’antichità romana: nella quarta orazione delle Verrine Cicerone  sostiene l’importanza delle opere d’arte per una civiltà, in quanto portatrici di valori religiosi e ideologici.

Da premesse di questa portata si spiega  la lunga tradizione legislativa dell’Italia  fin dagli stati preunitari, quando la questione della tutela dei monumenti si è sviluppata facendo poi da esempio al resto del mondo. Nel Rinascimento la legislazione papalina è volta soprattutto ad impedire il traffico di opere d’arte e la loro sparizione dalla Città Eterna. Una svolta importante, nel senso di intendere le opere d’arte non solo come proprietà privata ma come beni della collettività e del luogo a cui sono legate, si ha nel 1737 con il celebre lascito testamentario di Anna Maria Luisa de’ Medici, che obbligava i nuovi signori di Lorena a non portare “fuori dello Stato del Granducato Gallerie, Quadri, Statue, Biblioteche ed altre cose preziose…”, perché “rimanessero per ornamento dello Stato, per utilità del pubblico e per attirare la curiosità dei forestieri”. Di passata: quella grande donna introdusse in anticipo sui tempi il concetto, tutto moderno, del ritorno economico turistico-culturale. Nel Regno di Napoli avvenimento decisivo, di portata storica, è, dalla metà del Settecento, il decollo dell’archeologia con  gli scavi di Pompei ed Ercolano. Con essi e con le altre scoperte epocali successive – stele di Rosetta, sito di Troia –  l’archeologia evolve come disciplina scientifica acquisendo un ruolo di assoluto prestigio, in posizione di rilievo nella cultura universale, da sottoporre a controllo istituzionale, da sottrarre all’improvvisazione e alle attività di rapina e da affidare a studiosi di valore e competenza riconosciuti.

SCHEDA 2

Legislazione postunitaria sui beni culturali

  1. Dall’unità alla seconda guerra mondiale

1861: R.d. 11 agosto,  n.202. Attribuzione delle Belle Arti, dei musei e degli scavi al Ministero della pubblica istruzione.

1902: Legge n. 185 (Legge Nasi). Tutela del patrimonio monumentale.

1907: Legge 27 luglio, n. 386.  Istituzione del Consiglio superiore delle antichità e belle arti.

1909: Legge n. 364 (Legge Rosadi-Rava). Introduzione della procedura della notifica ai beni elencati ufficialmente.

1919: R.d.l. 3 ottobre, n. 1792. Istituzione di un Sottosegretariato di Stato per le antichità e belle arti (poi soppresso con r.d. 29 aprile 1923, n. 953).

1923: R.d. 16 luglio, n. 1753. Istituzione della direzione generale per le antichità e belle arti, all’interno del ministero della Pubblica istruzione (dal 1929 Ministero dell’educazione nazionale).

1932:  R.d. 22 dicembre, n. 1735. Istituzione della Consulta per la tutela delle bellezze naturali.

1939: leggi fondamentali n. 1089 per le cose di interesse storico artistico e la n. 1497 per le bellezze naturali.

  • Dalla seconda guerra mondiale a oggi

1947: 27 dicembre, G.U. n. 298. Costituzione della Repubblica Italiana (entrata in vigore l’1 gennaio 1948).

1964: Legge n. 310. Istituzione della Commissione Franceschini, dal nome del suo presidente, on. Francesco Franceschini, che si avvalse della consulenza di Massimo Saverio Giannini e altri insigni giuristi ed esperti.

1967: Legge n. 121. Salvaguardia e valorizzazione delle zone archeologiche di Aquileia e dell’antica via Romea.

1974: D.l. n. 657, conv. in l. n. 5/1975 e Ordinamento con dpr n. 805/1975,. Istituzione del Ministero per i beni culturali e ambientali“, che acquisisce dal Min. P.I. la direzione generale delle antichità e belle arti e la direzione generale accademie, biblioteche e diffusione della cultura.

1985: Legge n. 431,  cosiddetta “Galasso”, con cui si introduce l’obbligo di fasce di rispetto lungo i fiumi e altri vincoli per le zone di particolare interesse ambientale.

1998:  D. lgs n. 368. Istituzione del “Ministero per i Beni e le Attività Culturali” che aggiunge alle competenze del Ministero precedente spettacolo, sport e impianti sportivi (in precedenza di competenza della Presidenza dele Consiglio dei Ministri).

1998 D. lgs  n. 112 (in attuazione della legge n. 59/ 1997, detta “legge Bassanini”). È introdotta la definizione dei beni culturali (art.148 “Definizioni”, comma 1, lettera a): “quelli che compongono il patrimonio storico, artistico, monumentale, demoetnoantropologico, archeologico, archivistico e librario e gli altri che costituiscono testimonianza avente valore di civiltà”. Nel medesimo articolo di legge vengono inoltre definiti i termini di “beni ambientali”, “tutela”, “gestione”, “valorizzazione” e “attività culturali”. Con questo testo legislativo si allarga dunque la definizione tradizionale di “bene culturale”, che comprende ora anche fotografie, audiovisivi, spartiti musicali, strumenti scientifici e tecnici.

1998: Legge n.88. Norme sulla circolazione dei beni culturali.  Un elenco di categorie di beni culturali era stato inserito nell’Allegato A (“Categorie di beni”).

1999: D. lgs n. 490. Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, articoli 2, 3 e 4: la definizione di bene culturale ricalca quelle offerte dai precedenti provvedimenti.

2004: D. lgs n. 42 “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, seguito da integrazioni e modifiche.

2019: DPCM n. 169. Regolamento di organizzazione del Ministero per i beni e le attivita’ culturali e per il turismo, degli uffici di diretta collaborazione del Ministro e dell’Organismo indipendente di valutazione della performance (Entrata in vigore: 05/02/2020).2021: Con l’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del decreto di riordino delle attribuzioni dei ministeri, dal 26 febbraio il Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo ha assunto la nuova denominazionedi Ministero della Cultura con il nuovo acronimo MiC.

Note

[1] Disegno di legge costituzionale d’iniziativa del senatore Perilli, comunicato alla presidenza il 2 aprile 2021: “Modifica dell’articolo 9 della Costituzione in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, protezione della biodiversità e degli animali, promozione dello sviluppo sostenibile, anche nell’interesse delle future generazioni.” Ecco il testo, brevissimo: “1. All’art. 9 della Costituzione è aggiunto, infine, il seguente comma: ‘La Repubblica tutela l’ecosistema, protegge la biodiversità e gli animali, promuove lo sviluppo sostenibile, anche nell’interesse delle future generazioni’.”

[2] Art.  9/Cost: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.”

[3] Nei primi quarant’anni postunitari l’unico provvedimento di rilievo fu il R.d. 11 agosto 1861,  n.202, che assegnò le Belle arti, i musei e gli scavi  al Ministero della pubblica istruzione, che rimase titolare della materia fino all’istituzione di un ministero specifico, il  Ministero per i beni culturali e ambientali, nel 1974.

[4] Per il lettore che volesse approfondire il tema della lettura interpretativa di un centro storico funzionale a progetti di recupero e valorizzazione, segnalo il mio libro “Udine bellissima”, edizioni Orto della Cultura, che sviluppa il tema in riferimento al caso unico di Udine, dove l’arte medievale di costruire la città, arrivata nell’impianto stradale e nella qualità spaziale delle sue piazze quasi integralmente fino a noi,  è applicata la massimo livello e con assoluta originalità. Il libro, ristampato dopo l’esaurimento della prima edizione, è ampiamente utilizzato dall’attuale amministrazione comunale di destra che, ribaltando il programma elettorale con cui prometteva ai commercianti il ritorno delle auto in centro, sta attuando la riqualificazione e la pedonalizzazione di piazze e di strade, anche completando iniziative avviate dall’amministrazione precedente, e sulla scorta degli indirizzi del libro, che l’assessore all’urbanistica mi ha confessato di tenere sul suo comodino.

[5] La cosa potrebbe essere già nei fatti, sia pure non nel modo appropriato. Per esempio, con l’aggregazione del Museo Archeologico di Aquileia, dipendente dal Ministero, alla Fondazione Aquileia, il cui Direttore è nominato dalla Regione Friuli Venezia Giulia, è possibile un trasferimento dei funzionari della Soprintendenza alla Regione, che assicura – col comparto unico – trattamenti economici molto superiori a quelli dello Stato.

[6] Questo atteggiamento ha assunto la veste di una teorizzazione ufficiale in occasione della presentazione, avvenuta nel 2013 all’Università di Udine, del mio libro “Aquileia–Quadri da un parco archeologico”, in cui si sostenevano le ragioni di un progetto organico in una prospettiva strategica, quando un amministratore comunale intervenne per dichiarare che lui non credeva a nessuna strategia perché per questa via si corre il rischio che si blocchi tutto.  Sono passati quasi due lustri e la Fondazione Aquileia, istituita per coordinare tutti gli interventi di tutela e valorizzazione, che coerentemente a quest’assunto ha operato all’insegna della gestione dei sempiterni finanziamenti a pioggia, è attualmente in crisi per le dimissioni del presidente Zanardi Landi, tuttora non sostituito, e per il debole impatto delle promozioni culturali e delle opere eseguite: sostanzialmente una sola, la falsa ricostruzione di una domus romana di cui mancava qualsiasi documentazione sugli alzati.

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