Articolo pubblicato su IUA n° 8, Anno IV, Settembre 2017

Chi pensa di fare un uso attento della plastica spesso cerca di riciclarla e di evitare l’uso dei sacchetti per la spesa, eppure parrebbe che ne usiamo circa un trilione ogni anno. La plastica, però, non è solo quella degli shopper. Le nostre case e le nostre città ne sono piene in ogni forma, basta guardarsi attorno: dagli oggetti interamente in plastica, a quelli in materiali plastificati, a quelli parzialmente in plastica. Siamo sommersi dalla plastica. Viviamo in un mondo di plastica, e non certo solo metaforicamente parlando! Qualcuno ha persino definito i nostri anni l’Età della Plastica!

La plastica è comoda, pratica, leggera, economica. Quando se ne iniziò la produzione, la pubblicità ne esaltava le doti prodigiose. Chi, avendone l’età, non ricorda, per esempio, negli anni ’60 la pubblicità della Moplen, con il comico Gino Bramieri? Il Moplen altro non era che polipropilene isotattico, formidabile materia plastica a elevata temperatura di fusione. Bramieri alla domanda “E mo’?”, rispondeva “E mo’? Moplen!”, divenuta un tormentone dell’epoca. Lo accompagnava un coretto che ne esaltava le doti “è leggero, resistente, è leggero, resistente e inconfondibile e mo’, mo’, mo’ e mo’, mo’, mo’: moplen!”

L’indimenticabile Gino Bramieri e la pubblicità del Moplen

Se sessant’anni fa la plastica pareva una grandiosa novità, oggi non sappiamo più come liberarcene.

Secondo Polimerica, la produzione mondiale di plastiche nel 2014 si attestava intorno a 311 milioni di tonnellate, in crescita rispetto ai 299 milioni del 2013. Quella europea (28 Paesi UE + Norvegia e Svizzera) è stimata in 59 milioni di tonnellate, leggermente superiore all’anno precedente (58 milioni), ma ancora inferiore al picco di 65 milioni di tonnellate registrato nel 2007, prima della grande crisi. Centinaia di milioni di tonnellate ogni anno!

Proviamo a fare un raffronto con il prodotto più classico dell’umanità: nel 2009 la produzione mondiale di grano è stata di 682 milioni di tonnellate, di cui quella europea di 139 milioni di tonnellate. Insomma, nel mondo, produciamo plastica in un ordine di misura confrontabile al grano, sebbene le tonnellate di questo siano, per ora, più del doppio. Il grano, però, si trasforma in farina e poi in tanti altri prodotti che consumiamo nel giro di poco e presto scompaiono. La plastica, resta in circolazione su quel granello di sabbia disperso nella galassia, sul terzultimo pianeta che incontriamo viaggiando verso il sole, sulla Terra, in casa nostra! La produzione di ogni anno si accumula, sommandosi a quella degli anni precedenti. Siamo contenti di riempirci casa di spazzatura? Pensiamo davvero di poter cambiare pianeta facilmente appena questo sarà soffocato da tanta plastica?

Noi europei siamo tra i primi colpevoli. A livello mondiale, l’Europa mantiene il secondo posto, con un quinto della produzione globale di materie plastiche, alle spalle della Cina, che nel 2014 ha raggiunto una quota del 26%, contro il 21% del 2006. In contrazione l’area Nafta, passata in otto anni dal 23 al 19%.

Non tutte le plastiche sono uguali. Le “materie plastiche” comprendono una grande varietà di polimeri, ognuno con proprie caratteristiche, proprietà e campi di applicazione.

Ci insegna wikipedia che le materie plastiche sono materiali organici a elevato peso molecolare che possono essere costituite da polimeri puri o miscelati con additivi o cariche varie. I polimeri più comuni sono prodotti da sostanze derivate dal petrolio, ma vi sono anche materie plastiche sviluppate partendo da altre fonti. La plastica, infatti, si ottiene da composti di carbonio e idrogeno chiamati “monomeri”, che si ricavano soprattutto dal petrolio e dal metano.

Dal petrolio raffinato si ricavano circa una ventina di prodotti, e se energia per l’elettricità, benzina e gasolio fanno la parte del leone, dal barile il petrolio arriva nelle case sotto forma di bottiglie e oggetti di plastica, polistirolo fino ad alcuni tessuti di abbigliamento, come il polyestere. Circa il 4% della produzione mondiale viene trasformata in materie plastiche. Leggo su La Repubblica che da un barile di petrolio, si possono ricavare ben 1.750 bottiglie di plastica da un litro e mezzo, quelle comunemente usate per acqua minerale e bibite. Un barile contiene, infatti, convenzionalmente 159 litri di greggio, pari a circa 135 chili. Servono all’incirca 2 chili di petrolio per fare 1 kg di plastica per alimenti (Pet). Quindi da un barile di petrolio si ricavano circa 70 chili di Pet. In Italia consumiamo mediamente 5 litri di petrolio al giorno per persona, ossia circa un barile di petrolio al mese. Il consumo di petrolio annuale medio per una famiglia di 4 persone in Italia si aggira intorno a 7.760 litri. La plastica che ci circonda, insomma, altro non è che il famigerato petrolio sotto false spoglie! Produrre plastica significa produrre petrolio. Finché ce ne sarà ancora.

Ci ricorda Tecnologicamente che le plastiche sono materiali che non esistono in natura. Sono prodotte negli impianti chimici manipolando le molecole di una materia prima, che può essere la virgin-nafta o il gas naturale. La virgin-nafta è un prodotto della raffinazione del petrolio, costituita da una miscela di paraffine (idrocarburi saturi) a basso peso molecolare, con una bassa concentrazione di composti aromatici. Originariamente molte materie plastiche erano prodotte con resine di origine vegetale, per esempio la cellulosa (dal cotone), gli olii (dai semi di alcune piante), i derivati dell’amido e il carbone; tra i materiali non vegetali usati è invece da citare la caseina (dal latte). Sebbene la produzione di nylon fosse basata in origine su carbone, acqua e aria, e il nylon 11 sia ancora basato sull’olio estratto dai semi di ricino, la maggior parte delle materie plastiche è attualmente derivata dai prodotti petrolchimici, facilmente utilizzabili e poco costosi.

La IUPAC (Unione internazionale di chimica pura e applicata) nel definire le materie plastiche come “materiali polimerici che possono contenere altre sostanze finalizzate a migliorarne le proprietà o ridurre i costi”, raccomanda l’utilizzo del termine polimeri al posto di quello generico di plastiche.

Sempre secondo wikipedia, i materiali polimerici puri si dividono in:

  • termoplastici: acquistano malleabilità, cioè rammolliscono, sotto l’azione del calore; possono essere modellati o formati in oggetti finiti e quindi per raffreddamento tornano ad essere rigidi; tale processo può essere ripetuto tante volte;
  • termoindurenti: dopo una fase iniziale di rammollimento per riscaldamento, induriscono per effetto della reticolazione; nella fase di rammollimento per effetto combinato di calore e pressione risultano formabili; se vengono riscaldati dopo l’indurimento non tornano più a rammollire, ma si decompongono carbonizzandosi;
  • elastomeri: presentano elevata deformabilità ed elasticità.

Secondo una classificazione “commerciale”, i materiali polimerici si dividono in:

  • fibre: sono dotati di notevole resistenza meccanica e hanno scarsa duttilità rispetto agli altri materiali polimerici; ciò vuol dire che sono materiali che si allungano poco se sottoposti a trazione e possono resistere a elevati carichi di rottura;
  • materie plastiche: formulate a partire da termoplastici e termoindurenti;
  • resine: particolari materie plastiche formulate a partire da termoindurenti;
  • gomme: formulate a partire da elastomeri.

Tra i polimeri termoplastici abbiamo polietilene e polistirene.

Il polietilene è usato principalmente per gli imballaggi e rappresenta il 40% dei prodotti plastici usati in Europa.

Le poliolefine (talvolta indicate dalla sigla PO), ci dice wikipedia, sono una classe di macromolecole composte da monomeri di olefine derivate dalla polimerizzazione di petrolio o gas naturale. Le poliolefine sono polimeri. Tra i più diffusi il polipropilene (PP), il polietilene (PE) e il poliisobutilene (PIB), largamente utilizzati per prodotti in plastica o gomma d’utilizzo comune.

Secondo Polimerica, le poliolefine sono le plastiche in assoluto più trasformate, totalizzando quasi la metà dei consumi europei (47,8 mln ton), tra polietileni a bassa densità (17,2%), alta densità (12,1%) e polipropilene (19,2%). Segue il PVC con il 10,3% e, a singola cifra, poliuretani (7,5%), PET (7%) e polistireni (7%). Fluoropolimeri, ABS, policarbonato, PMMA e altri tecnopolimeri concorrono per il restante 19,7%.

Perché dovremmo preoccuparci della produzione e dello smaltimento della plastica? Perché la plastica non si “consuma” facilmente ovvero non è un prodotto facilmente biodegradabile.

La biodegradabilità è la proprietà delle sostanze organiche e di alcuni composti sintetici di essere decomposti dalla natura, o meglio, dai batteri saprofiti.

I batteri ne estraggono gli enzimi necessari alla decomposizione in prodotti semplici, dopodiché l’elemento è assorbito completamente nel terreno. Una sostanza non decomponibile (o decomponibile a lungo termine), rimane nel terreno senza esserne assorbita, provoca inquinamento e favorendo problematiche ambientali.

Un composto è biodegradabile quando in natura esiste un batterio in grado di decomporre il materiale. Tutti i composti organici naturali, come la carta, sono facilmente decomponibili; invece, tutti i prodotti sintetici moderni (esclusi alcuni speciali, come la bioplastica) non possono essere decomposti dalla natura. Un materiale non biodegradabile rimane identico nel tempo e contribuisce all’inquinamento; peraltro, non tutti i composti non biodegradabili sono altrettanto pericolosi: esistono tipi di composto che non danneggiano la vita dell’ecosistema, e che quindi lasciano immutata la situazione.

Secondo la definizione data dalla European Bioplastics, la bioplastica è un tipo di plastica che deriva da materie prime rinnovabili oppure è biodegradabile o ha entrambe le proprietà, ed è inoltre riciclabile.

Non solo la plastica ha bassa biodegradabilità. I prodotti della nostra “civiltà” hanno diversi tempi per biodegradarsi. Quelli della plastica, sono certo tra i più preoccupanti, soprattutto, per la grande quantità di questi materiali in circolazione.

Secondo il sito www.leucopetra.it, per esempio, le pile al cadmio hanno bisogno di milioni di anni per degradarsi, le bottiglie di vetro di alcuni millenni, i sacchetti di plastica di oltre 800 anni, le bottiglie di plastica di 500 anni, le lattine in alluminio di 100 anni, il legno di due anni, un maglione di lana, una sigaretta o un pannolino di oltre un anno, giornali e scatole di cartone di oltre due mesi, la carta assorbente di oltre 4 settimane.

Anche la produzione di vetro, insomma, è preoccupante, aggirandosi intorno ai 40 milioni di tonnellate annue, ma il vetro, a differenza della plastica, non galleggia e quindi non rappresenta una minaccia altrettanto seria per la catena alimentare marina. Il vetro che finisce in mare si deposita sul fondo, mentre la plastica è continuamente trasportata dalle correnti e, sfaldandosi, si trasforma in pericolosi frammenti di microplastica. Il vetro, poi, è costituito soprattutto da silice oltre a piccole quantità di sostanze minerali necessarie alla lavorazione e alla colorazione, per cui è innocuo, mentre, come si scriveva, la plastica deriva soprattutto dal petrolio. Inoltre, a differenza del vetro, nella fase del consumo la plastica cede e assorbe sostanze (ftalati e altro) al liquido contenuto. In fase di smaltimento, essendo un derivato del petrolio, la plastica nell’inceneritore produce sostanze nocive.

Poiché la plastica galleggia, segue le grandi correnti marine, fino a bloccarsi lungo alcune coste o formando isole mobili in mezzo al mare.

Nell’oceano Pacifico, da anni ormai, è presente un’isola di plastica, una grande quantità di immondizia concentratasi a causa delle correnti degli oceani. È detta “Great Pacific Garbage Patch”. Si tratta di un’immensa massa di spazzatura composta da oltre 21 mila tonnellate di microplastica, in un’area di qualche milione di kmq, con una concentrazione massima di oltre un milione di oggetti per kmq. L’accumulo è noto almeno dalla fine degli anni ’80, e ha un’età di oltre 60 anni. Un gigantesco vortice di correnti superficiali ha concentrato in quest’area i rifiuti gettati o persi da navi in transito, o scaricati in mare dalle coste del Nord America e dall’Asia. Le isole di plastica, però, non sono presenti solo nell’oceano Pacifico, ma anche nell’oceano Atlantico e nel mar Mediterraneo. Il Mediterraneo è diventato una zuppa di plastica. Un chilometro quadro, nei mari italiani, ne contiene in superficie fino a 10 chili! Dieci chili di plastica non biodegradabile in un chilometro quadro: vi sembra poco? È questo il record del Tirreno settentrionale, fra Corsica e Toscana. Attorno a Sardegna, Sicilia e coste pugliesi, la media è invece di 2 chili. Sono valori superiori perfino alla famigerata “isola di plastica” nel vortice del Pacifico del nord. Qui la densità delle microplastiche – i frammenti di pochi millimetri da cui è formata la “zuppa” – è di 335mila ogni chilometro quadro. Nel Mediterraneo arriva a 1,25 milioni. L’analisi che ha riguardato i mari della penisola arriva da un gruppo di biologi del Cnr ed è pubblicata su Scientific Reports. “Nel complesso – scrivono i biologi nello studio – la plastica è meno abbondante nell’Adriatico, con una media di 468 grammi per chilometro quadro, rispetto al Mediterraneo occidentale” con una media di 811 grammi. “La gravità della situazione del Mediterraneo non ci stupisce – dice Aliani, uno dei responsabili del progetto – È un mare sostanzialmente chiuso, in cui una particella ha un tempo di permanenza di circa mille anni. Teoricamente, cioè, impiega tutto quel tempo per attraversare la stretta imboccatura di Gibilterra. Nelle sue acque sboccano anche fiumi importanti come Danubio, Don, Po e Rodano”. Anche se i mari diventano sempre più torbidi (si calcola che dei 300 milioni di tonnellate all’anno di plastica prodotta nel mondo, una dozzina finiscano in mare), quale sia la sorte di buona parte della spazzatura resta un mistero. “Non sappiamo dove sia oggi tutta la plastica che abbiamo prodotto – spiega Aliani al quotidiano La Repubblica – Quella che ritroviamo nelle nostre spedizioni non si avvicina neanche lontanamente all’ammontare che secondo i nostri calcoli dovrebbe essere finito in mare. Può darsi che molta si perda in fondo agli oceani, dove non abbiamo la possibilità di osservarla”. La responsabilità delle zuppe marine va in buona parte al packaging non riciclabile, spiega un articolo di Repubblica. Avete mai fatto caso a quanta plastica ci sia attorno a ogni alimento che acquistiamo in un supermercato? Come mai i nostri secchi della spazzatura si riempiono tanto in fretta? Se facciamo la raccolta differenziata, quanto più in fretta si riempie il secchio della plastica e del vetro rispetto a quello delle materie organiche? La raccolta differenziata delle materie plastiche riguarda in particolare gli imballaggi, che costituiscono una percentuale rilevante della plastica contenuta nei rifiuti urbani (oltre il 50%).

In Europa, dove il 38% della plastica finisce nelle discariche, scatole e involucri contribuiscono al 40% della produzione di questo materiale e a più del 10% dei rifiuti. Il 92% della plastica trovata in mare è composta da frammenti di meno di 5 millimetri, i più pericolosi per la fauna marina. Tracce sono comparse in Artide e Antartide. Sono finite inglobate in alcune rocce (un campione dei cosiddetti “plastiglomerati” è stato osservato alle Hawaii nel 2014) e si sono infilate nei sedimenti dei fondali oceanici. Questo materiale è perfino stato proposto come uno dei segni distintivi dell’antropocene, l’era geologica caratterizzata dai segni della presenza umana sulla Terra.

Più pericolose della plastica stessa, sono le sostanze che alla plastica vengono combinate durante i processi industriali, per fornirle le caratteristiche volute. “Potrebbero agire come pseudo-ormoni, creando scompensi nel sistema endocrino. Abbiamo osservato il problema nelle balene” spiega Aliani, uno dei coordinatori del progetto del CNR che ha studiato la situazione del Mediterraneo.

Secondo il National Geographic, anche i fondali non se la passano tanto bene: il 70% dei detriti marini precipitano e ricoprono dunque anche il fondo dell’oceano. Qui, come ha messo in evidenza l’Unep, anche le plastiche biodegradabili possono non decomporsi in mare, dato che sul fondo non arriva la luce del sole e la temperatura dell’acqua è molto più bassa di quella necessaria per avviare il processo di decomposizione.

Quando si dice che la platica non è biodegradabile, non s’intende che non si decompone, perché, invece, è proprio quello che fa, ma frammentandosi diventa persino più pericolosa, trasformandosi nella così detta micro-plastica che si diffonde in modo ancor più insidioso nell’ambiente.

Un documentario prodotto da Sky TG24 intitolato “La balena di plastica” mostra una balena arenatasi allo stremo delle forze a Sotra, in Norvegia. All’interno del suo intestino e del suo stomaco è stata trovata una grande quantità di plastica, l’equivalente di circa 30 borse di plastica. Non si trattava di un gigantesco capodoglio, ma di un cetaceo molto più piccolo, per dimensioni qualcosa di più di un delfino.

Come spiega il documentario, le balene emettono dei sonar con i quali, tra le altre cose, riconoscono il cibo. Poiché il plancton di cui si nutrono, al sonar, appare molto simile alla plastica, questi animali la mangiano fino al momento in cui il loro stomaco ne è così pieno, che non possono più mangiare o evacuare e alla fine ne muoiono. Questo non è un problema solo delle balene. Nel 1994, per esempio, una tartaruga fu ritrovata in fin di vita con 54 sacchetti di plastica nell’esofago che le impedivano di mangiare e respirare. Secondo alcuni studi, in Olanda circa il 96% degli uccelli trovati morti aveva frammenti di plastica nello stomaco (circa 23 frammenti per uccello).

La maggior parte delle specie animali non mangiano interi sacchi di plastica, ma la microplastica può essere ingerita assai più facilmente, accumulandosi allo stesso modo nello stomaco dei pesci o degli altri animali e da lì passando nell’intera catena alimentare, fino all’uomo.

Una soluzione per lo smaltimento naturale della plastica lo ha recentemente suggerito Federica Bertocchini, dell’Istituto di Biomedicina e Biotecnologia di Cantabria, in Spagna, che pulendo le larve che vivevano come parassite della cera delle api in uno degli alveari, dopo averle poste temporaneamente in un sacchetto di plastica, ha notato, che dopo poco tempo, sono apparsi sul sacchetto dei forellini. Mettendo quindi un centinaio di larve in un sacchetto, dopo quaranta minuti ha notato i primi buchi. Dopo 12 ore, erano spariti 92 milligrammi di plastica. Alcuni batteri, invece, riescono a smaltire 0,13 milligrammi al giorno. Purtroppo parliamo di milligrammi smaltiti, contro milioni di tonnellate che ogni anno finiscono in mare. Di quanti batteri e quanti vermi avremmo bisogno per ripulire i nostri mari e le nostre terre?

Le plastiche sono tipicamente composte da polimeri sintetizzati artificialmente. La loro struttura non è disponibile in natura, quindi, come si scriveva prima, non sono biodegradabili. Peraltro, sono stati creati nuovi materiali con le proprietà e l’usabilità della plastica, ma biodegradabili.

La plastica biodegradabile si decompone completamente in anidride carbonica, metano, acqua, biomassa e composti inorganici, sotto l’azione di organismi viventi in condizioni aerobiche o anaerobiche.

Il processo trasforma i materiali artificiali come la plastica in componenti naturali. Il processo con il quale una sostanza organica, come un polimero, si converte in una sostanza inorganica, come l’anidride carbonica, si chiama mineralizzazione.

Le plastiche compostabili si frammentano durante il ciclo di compostaggio e il processo di mineralizzazione comincia nel periodo richiesto per la degradazione degli scarti biologici (es. erba, rifiuti alimentari domestici).

Le plastiche compostabili sono un sottoinsieme delle plastiche biodegradabili e si decompongono biologicamente alle condizioni di compostaggio entro il tempo relativamente breve di un ciclo di compostaggio. Compostabile significa sempre biodegradabile, mentre biodegradabile non necessariamente significa compostabile.

Dovremmo, insomma, cercare di usare non semplicemente plastiche biodegradabili, ma possibilmente compostabili!

Anche se si degradano, le plastiche biodegradabili non devono essere gettate in natura! Come spiega www.plastice.org, le plastiche biodegradabili non sono estranee per l’ambiente naturale, come la plastica ordinaria, la cui influenza può essere diminuita ma non eliminata. Tuttavia, nonostante questi vantaggi, esse devono essere raccolte, solitamente insieme a rifiuti biologici, e processate aerobicamente o anerobicamente.

Secondo Polimerica, in Europa, delle 25,8 milioni di tonnellate di plastiche trasformatesi in rifiuto nel 2014, il 29,7% è stato raccolto e riciclato (per un totale 7,7 milioni di tonnellate), un altro 39,5% è stato trasformato in energia (10,2 milioni di tonnellate), mentre il 30,8%, pari a 8 milioni di tonnellate di prezioso materiale, è finito in discarica, la peggiore delle opzioni a disposizione.

La nota positiva è che, dal 2006 al 2014, il ricorso alla discarica è crollato del 38%, da 12,9 a 10,2 milioni di tonnellate, mentre il riciclo meccanico è salito del 64%, da 4,7 a 7,7 milioni di tonnellate, e quello energetico del 46%, da 7 a 10,2 milioni di tonnellate. L’Italia si colloca in una posizione intermedia tra paesi europei che ricorrono alla discarica, con il 40% dei rifiuti plastici non recuperati altrimenti, non raggiungendo i livelli virtuosi di Svizzera, Germania, Austria o Benelux, che conferiscono in discarica meno del 10% delle plastiche a fine vita. Se si limita l’analisi ai soli imballaggi in plastica (oggetto della raccolta differenziata nel nostro Paese), l’Italia si posiziona al tredicesimo posto con oltre il 75% tra riciclo e termovalorizzazione, ben prima di Paesi come Francia o Regno Unito.

Purtroppo non tutta la plastica è correttamente smaltita.

Secondo Greenpeace, in media 8 milioni di tonnellate di plastica finiscono ogni anno nei mari di tutto il mondo. Plastica che viene ingerita dalle balene e che potrebbe portarle all’estinzione, plastica che si degrada trasformandosi in micro-plastica, entrando nel ciclo alimentare di tutti gli esseri viventi.

La plastica insomma inquina? Così sembrerebbe, ma la risposta non è così semplice.

Come ci spiega Focus Junior, la plastica per essere prodotta richiede meno energia di quanta ne occorre per una bottiglia di vetro o un sacchetto di carta. Essendo più leggera di altri materiali da imballaggio richiede meno energia anche per il trasporto. Meno energia si consuma, dunque, meno s’inquina. Il problema della plastica non è che è un materiale che inquina in quanto tale. Altri materiali inquinano di più, perché comportando un maggior dispendio di energia, determinano un maggior uso di combustibili. Siamo noi uomini, a inquinare e devastare l’ambiente lasciando in giro bottigliette, sacchetti e oggetti. Infatti, l’elevata resistenza agli agenti atmosferici e al passare del tempo di questo materiale fanno sì che duri disperso nell’ambiente per lungo tempo. E, se giunge in mare, rappresenta un grave pericolo per le creature marine che dovessero ingoiarlo. Per questa ragione, conclude Focus Junior, è importantissimo gettare tutta la plastica usata nei raccoglitori per la raccolta differenziata. Così facendo otterremo un doppio risultato: rispettare l’ambiente in cui viviamo e risparmiare energia e materie prime, trasformando le bottigliette vuote e i sacchetti in nuovi oggetti utili.

Negli ultimi 20 anni, l’uso della plastica nelle automobili è aumentato del 114% e si stima che, senza questo materiale, le auto odierne peserebbero in media almeno 200 kg di più.

Si ritiene che, su una durata media di un’auto stimata in 150.000 km, la riduzione del peso ha contribuito a diminuire il consumo di carburante di circa 750 litri. A sua volta ciò riduce il consumo di petrolio di circa 12 milioni di tonnellate e le emissioni di CO2 di circa 30 milioni di tonnellate all’anno in Europa Occidentale. Insomma, gli effetti ambientali dell’uso della plastica nel settore automobilistico sono contrastanti, da una parte aumenta la plastica utilizzata, dall’altra migliora l’efficienza dei veicoli.

È la grande contraddizione della plastica, la cui leggerezza, resistenza ed economicità la rendono un materiale che abbassa i consumi energetici, con effetti benefici sull’inquinamento, ma la sua non biodegradabilità unità alla sua tendenza a deteriorarsi e frammentarsi la rendono un grave inquinante.

Il rapporto dell’uomo con la plastica è qualcosa che dovrà essere rivisto molto presto. Lo stesso esaurirsi della sua materia prima principale, il petrolio, le cui riserve sono da decenni sempre più prossime a raggiungere livelli di anti-economicità, potrebbero portare a una morte naturale della plastica. Se così non fosse e anche prima che questo avvenga dovremo immaginare un’uscita da quest’Età della Plastica, prima che il nostro pianeta ne rimanga soffocato.

La plastica è una delle varie sirene del nostro tempo, che ci ammalia con il suo canto, ma che nasconde insidie ormai sempre più evidenti.

Occorre ripensare l’intero rapporto con il pianeta e la natura per consentirne la sopravvivenza e per evitare l’estinzione della nostra specie che sempre più fattori stanno contribuendo a rendere un evento tutt’altro che fantascientifico.

Leggi anche su: https://pianeta3.wordpress.com/2017/07/03/affogati-dalla-plastica/

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