Articolo pubblicato su IUA n° 3, Anno VII, Marzo 2020

 

 

L’estate scora ho incontrato un mito dei miei vent’anni, una persona straordinaria che a suo tempo ebbe il coraggio di aprire a Milano una galleria di “Arte fotografica”.

Parlo della notissima, anche se ormai chiusa, galleria IL DIAFRAMMA, fondata da Lanfranco Colombo che per diversi anni ha pure diretto una rivista cult dell’epoca il “Popular Photography Italiana”.

A parte il piacere di trascorrere una serata in compagnia sua e di altri valenti fotografi del Circolo fotografico “Carpe Diem” di Sestri Levante questo episodio mi richiama alla mente le lunghe discussioni circa la validità artistica della fotografia.

Premesso che su questo non ho mai avuto dubbi, anche se, come in tutte le manifestazioni artistiche, l’evoluzione promossa da un costante utilizzo di tale linguaggio – perché quello fotografico è un linguaggio – ha naturalmente generato tutto un ventaglio di processi di valutazione dell’immagine fotografica che spazia dalla foto dilettantistica, a quella professionale per raggiungere poi la dimensione di una espressione di alto valore artistico.

È su quest’ultimo criterio di valutazione che Lanfranco Colombo ha dato vita ad una vera e propria rivoluzione nel campo della fotografia in Italia: la fotografia come opera d’arte.

Riterrei inopportuno parlarne se non fosse che ogni tanto sento mormorare: “sì, ma la fotografia è realizzata con una macchina, non dalla mano dell’uomo…”

Ora se dovessimo prendere in seria considerazione un discorso del genere dovremmo concludere che le uniche vere opere d’arte sono le figure preistoriche trovate nelle caverne, perché dopo tale periodo l’uomo ha sempre utilizzato un qualche strumento nel realizzare immagini, statuine, sculture o altro che avesse poi una valenza artistica, la stessa musica, senza strumenti non avrebbe avuto modo di evolversi. In fotografia si usa sì una macchina, ma questa serve solo a consentire all’autore di realizzare la “propria” immagine, non una immagine qualsiasi ma quella che l’autore, nell’infinità di possibilità che lo strumento gli offre, ha voluto privilegiare: è nel criterio di scelta dell’autore che risiede la valenza artistica, lo strumento (ossia la macchina fotografica) realizzerebbe anche qualsiasi altro soggetto, senza alcuna preferenza, essendo la sua funzione quella di registrare (sia in analogico che in digitale) quello che si trova davanti all’obiettivo. È come voler stabilire la maggiore o minore poeticità di un tramonto: nella sua oggettività i colori che si producono sono solamente un fenomeno fisico, che resta tale anche senza la testimonianza umana, è l’uomo che reagisce empaticamente di fronte al fenomeno fisico, perché il colore è uno dei tanti fattori che influenzano il suo stato d’animo.

Ho parlato di linguaggio perché qualsiasi disciplina artistica utilizza un linguaggio, quello della parola, quello della forma, quello dei colori, quello dei suoni, ecc., e tramite ciascun linguaggio si realizzano opere capaci di suscitare emozioni, cioè opere d’arte. È per questo che non riesco a capire per quale strana alchimia (o snobismo) ci siano tante persone che, nonostante i decenni di attività artistica fotografica che ha prodotti tanti mirabili artisti, si ostinano a voler negare alla fotografia una sua intrinseca capacità di produrre opere d’arte: non è la macchina che fa la foto, essa esegue solo un’operazione di carattere tecnico – la foto la fa l’uomo.

Le fotografie sono state gentilmente concesse dall’autore Guido De Marchi

 

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