Econovella pubblicata su IUA n° 4, Anno II, Aprile 2015

In una notte fredda e luminosa vidi per la prima volta il Magico Ciarlatano.

Appeso a una griglia di nuvole voleva farmi credere alle parole del vento, a quel suo urlo forte che sconfinava dentro le case, rompendo porte e finestre.

Si dondolava e sorrideva – forse masticava una gomma – e mi acchiappò per una manica mentre tentavo di svoltare.

– A cosa pensi? – mi chiese, mentre un ciuffo scomposto di capelli gli ricadeva continuamente sulla fronte.

– Non penso a niente, sono vecchia, mi fanno male le ossa – risposi, cercando un buco o un pozzo per scendere fino al fondo, attraversando la terra.

Il Magico, sotto la luce non filtrata delle stelle, mi pareva un uovo schiacciato dal peso di tutto quel bianco come da un’idea superflua, generata per sbaglio da una bava di luce sfuggita all’orchestrazione perfetta del cielo sopra di noi.

Lo guardai per un attimo, prima di continuare la mia ricerca di una strada nascosta che affondasse nel sottobosco. Dentro la terra fremeva un mondo sconosciuto, dedalo di vie e passaggi talmente desolati, eppure belli nel loro abbandono, da non farmi stare più nella pelle al solo pensiero. Ma il Ciarlatano, che adesso si era spostato su un albero più basso e accoccolato comodamente sopra un ramo biforcuto, non smetteva di chiedere e di disturbarmi.

Cosa vuoi, che cosa pensi, chi sei? Le sue domande insistenti, pur nella loro banalità e mortale ripetitività, gettavano un’ombra sul mio diligente lavoro di ricerca.

Sotto il chiarore di una luna apparsa d’improvviso, gialla e larga come un occhio premuroso, riuscii a intravedere una combriccola di fate che lavorava qualcosa con ferri d’oro.

Chiesi loro aiuto ma si dileguarono nel bosco senza degnarsi di rispondermi, trascinate via da un suono acuto di campanelli e da un odore greve di muschio.

Mi guardai intorno smarrita e colsi un bagliore inaspettato proprio accanto a una vecchissima quercia: era un ingresso. Fingendo disinvoltura mi incamminai verso quella direzione, nel tentativo di eludere ulteriori domande da parte del noioso Ciarlatano. Invece, lui mi prevenne: così veloce e agile mi si parò davanti, bloccandomi l’ingresso verso i sotterranei.

– Basta! Vattene, stupido presuntuoso! – gridai, spazientita – Lasciami andare, fammi scendere e scomparire dalla tua vista una volta per tutte. Stai pur certo che non tornerò mai più sopra, in questo regno umido e nebbioso, dove purtroppo vivi anche tu. –

– Sciocca – mi redarguì lui, allungando con bramosia le dita per afferrarmi – là sotto non c’è niente per te, soltanto buio e soffitti bassi, poca aria e strade strette come cunicoli. Vuoi fare la fine del topo? Oppure vuoi trasformarti in una talpa cieca che scava con le unghie per tutta la durata della sua breve vita obnubilata? –

– Cosa ti importa del mio destino, – mormorai con voce strozzata, piegando da un lato la testa come per sfidarlo dal basso verso l’alto – cosa sei venuto a fare qui? Perché mi hai trovato? –

– Se resterai con me ti perdonerò – rispose quello, addolcendo il tono della voce – se rimarrai con me ti ripagherò del tempo che hai perduto, tutto il tempo, stai bene attenta, e poi ti insegnerò a volare fin sotto la pancia della luna, e a tornare indietro senza cadere. –

– E mi priverai della libertà? – chiesi, guardandolo con preoccupazione.

Mi sembrava che il suo viso si stesse allungando, al pari delle braccia e delle gambe: adesso somigliava a una qualche specie di uccello acquatico con la pelle che si stava lentamente colorando di rosa. Un fenicottero con le zampe sottili, ecco in cosa stava mutando, un fenicottero che planava con delicatezza verso di me, proprio sopra il mio sguardo.

– Certo che lo farò – rispose lui, mentre un sogghigno gli contraeva l’angolo sinistro della bocca – ma tu sarai felice e non ricorderai più il tuo passato di stenti e di timori. –

Così parlando, il Magico Ciarlatano aveva iniziato a camminare, perso nei suoi propositi che mi riguardavano tanto da vicino, e, più camminava, più si spostava dall’ingresso ai sotterranei.

Io vidi, in una frazione di secondo, una testa che sbucava dall’apertura, come per controllare che quest’ultima non fosse stata ostruita. La testa mi guardò girandosi di scatto e solo allora mi accorsi che era attaccata a un corpo peloso: un grosso talpone mi stava osservando ma, essendo come io sapevo molto debole di vista, dubitai che mi avesse individuato. Cercai di catturare la sua attenzione con qualche gesto della mano, senza essere scoperta dal Magico, che, nel frattempo, continuava imperterrito a spostarsi senza quasi rendersene conto, canticchiando un motivo che ricordavo benissimo per averlo sentito in TV quando ero bambina. Era una canzoncina che accompagnava la pubblicità di qualcosa che non riuscivo a mettere a fuoco.

Il mondo si era perso, tanti, tanti anni prima. Dove vivevamo adesso altro non era che il residuo, l’immensa scoria di ciò che esisteva un tempo sulla superficie della terra. Rimanevano ancora qualche lago non del tutto prosciugato e il bosco dove ci trovavamo in questa strana notte, poi esistevano i sotterranei abitati dagli animali sopravvissuti.

Col fiato in gola e tutto il coraggio che avevo a disposizione spiccai un balzo e mi trovai per incanto davanti all’apertura. Mi guardai intorno con una rapida occhiata e, velocissima, infilai la testa nel grosso buco, facendo poi scivolare tutto il corpo all’interno del tunnel.

La grossa talpa era ancora lì – sembrava proprio che mi stesse aspettando – e io iniziai a seguirla attraverso gli stretti cunicoli.

Notai subito con piacere che l’animale teneva con la zampa destra una grande torcia bruciante, che inondava di luce le “stanze” che si succedevano una dentro l’altra.

La talpa non aveva bisogno di luce, abituata com’era da sempre all’oscurità.

Faceva questo per me, solo e soltanto per me.

Rincuorata, continuai a seguirla dentro ogni cavità, sempre più giù, fino al fondo della terra.

Iole Troccoli 26 febbraio 2015

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