Eco-poesiprosa pubblicata su IUA n° 1, Anno II, Gennaio 2015

Cesare Viazzi. Sirene.jpg
Cesare Viazzi. Sirene“. Con licenza Pubblico dominio tramite Wikipedia.

Un tempo sono stata sirena.

Piccola, vibrante, raccoglievo azzurro nelle grotte, ombreggiavo il viso col pallore di alghe appena nate, sopportavo il freddo marmo dell’acqua sotto roccia.

Ogni tanto cantavo.

Adolescente, imparavo a far schiumare la coda

che rosseggiava sotto la chiglia incrostata delle navibarriera

che ululavano al mondo-sopra le loro grida salate

di umanità appese agli alberi, a rotolare le vele.

Mi gettavo nello sconforto di saper soltanto nuotare.

Più grande, conobbi le danze dei pesci amici, il loro urtarsi continuo,

il sottovento che urgeva quando le onde alzavano

la schiena e, sopra, era paura senza sonde,

un martirio che buttava corpi nelle profondità dei velieri morti,

nelle cambuse di ruggine scordate anche dalle murene furiose.

Vidi i delfini giocherellare con la mia mestizia, sentii gli abbracci secolari dei polpi

che scrivevano poemi sulla sabbia.

Imparai l’inchiostro segreto delle seppie sguscianti, intravidi sopra un fondale dimenticato

l’ombra del calamaro più grande che cercava le rotte abbandonate dai pirati antichi.

Scoprii che le conchiglie servivano a far di conto

e la linea del mare mi aiutò a salire il tempo dei tramonti

e delle isole inghiottite dalle onde sorelle.

Qualche costruzione umana mi apparve, ogni tanto,

smisuratamente piccola, inutile con le sue reti malvagie

pronte a colpire, a rapire gli amici miei

a portarli immobili sulle loro tavole senza vergogna.

Un grosso granchio mi arenò sulla spiaggia, un giorno d’aprile.

Portava compagnia con le sue chele amare di dolori racchiusi dentro la polpa molle.

Fummo inseparabili per giorni e giorni, mi insegnò la notte per galleggiare sulle acque calde della riva, e poi, a guardare le stelle.

Ormai ero grande, quasi vecchia, o perlomeno antica, i capelli si erano fatti rossi, le squame cadevano a ogni plenilunio.

Alcuni crostacei abbandonarono la mia pelle verde, per esseri più giovani e forti.

Il grosso granchio mi rimase vicino fino alla mutazione.

Accarezzava la mia coda con le sue grandi chele nere e gentili.

Io cantavo, come quando ero piccola.

La voce aveva perso la trasparenza degli oceani lontani, il blu appassionato delle notti di Venere.

Restava l’incanto del ricordo e il granchio lo comprese fino in fondo.

Le gambe lunghe, sottili come anguille appena nate, uscirono all’alba e mi sorressero a malapena. Il granchio, appena le vide, scappò di traverso in mezzo alle ondine che sbattevano sulla sabbia. La schiuma bianca se lo portò via con anelli di dita che scorrevano, velocissimi.

Ricordo che fu un bambino a vedermi per primo. Ero brutta, gli feci quasi paura. La mia voce era terribile, provai a chiamarlo in tutte le lingue che conoscevo ma non si avvicinò. Continuò a guardarmi i capelli lunghissimi pieni di mare perduto finché sua madre non venne a prenderselo, dopo avermi lanciato un’occhiata feroce.

Barcollando iniziai il mio cammino, mi confusi infelice tra la gente che viveva di sopra.

Nessuno sa che un tempo sono stata sirena.

Iole Troccoli 30 novembre 2014

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