Racconto pubblicato su IUA n° 1, Anno IV, Gennaio 2017

Introduzione a cura di Gianna Maria Tavoschi

Il racconto autobiografico di Roberto Zeloni si contestualizza nel mese e mezzo precedente il disastro del Vajont. Alle ore 22.39 del 9 ottobre 1963, circa 260 milioni di m³ di roccia (un volume più che doppio rispetto a quello dell’acqua contenuta nell’invaso) scivolarono, alla velocità di 30 m/s (108 km/h), nel bacino artificiale sottostante creato dalla diga del Vajont, provocando un’onda di piena tricuspide che superò di 250 m in altezza il coronamento della diga e che in parte risalì il versante opposto distruggendo tutti gli abitati lungo le sponde del lago nel comune di Erto e Casso, in parte scavalcò il manufatto (che rimase sostanzialmente intatto, seppur privato della parte sommitale) e si riversò nella valle del Piave, distruggendo quasi completamente il paese di Longarone e i comuni limitrofi, in parte ricadde sulla frana stessa (creando un laghetto). Vi furono 1917vittime. (Gianna Maria Tavoschi)

 

VAJONT: IN GITA CON MIO PADRE, POCO PRIMA DEL DISASTRO

La diga del Vajont

È l’ultima domenica di fine agosto del ’63. A bordo della nostra Fiat 600 bianca, sto percorrendo con mio fratello Marco e papà la rotabile della valle del Piave, dopo una visita di due giorni alle zie Marta e Lucia di Feltre.

I visi sono incollati al finestrino, guardiamo lo scorrere del fiume che scende lungo la vallata. Attraversiamo i paesi di Fortogna e Faé, fino a entrare a Longarone.

Percorrendo il corso lungo una fila di case sciupate dal tempo, ci affacciamo a una piazza dove parcheggiamo l’auto. Qui c’è gente che cammina e sorride; alcuni leggono il giornale seduti tra i tavoli di un bar sotto un colonnato.

In questa giornata di festa i negozi sono chiusi; vorremmo prendere del pane e della mortadella per fare una merenda in riva al lago del Vajont. Chiediamo informazioni a un signore con giacca e cappello. ”Mi scusi signore – chiede papà -, sa dirci se in paese c’è aperto un negozio di salumi?” Lui ci guarda e sorride, poi allungando il braccio con la mano, ci dice: “Andate in fondo alla piazza, a sinistra c’è il negozio di alimentari che tiene aperto mezza giornata”. Quando arriviamo, il nostro sguardo si perde lungo il vicolo e tra le case in alto si vede incastrata nella montagna l’imponente mole della diga, simbolo del progresso.

Entriamo nel negozio, e davanti allo scaffale pieno di scatole di pelati, tonno e acciughe c’è un uomo alto e robusto con i capelli lisciati all’indietro dalla brillantina; ci saluta esponendo una bella fila di denti bianchi e ci chiede che cosa desideriamo. Papà risponde: “Vorrei della mortadella, del pane e una bottiglia di vino”. Il negoziante, mentre taglia l’insaccato su un’affettatrice, ci dice: ”Siete friulani, vero?” Rimaniamo sorpresi da questa affermazione, lui prosegue dicendo: ”Ho lavorato in Friuli e conosco la vostra cadenza, dove siete diretti?” Così papà dice: “Vorremmo andare su alla diga!” “La strada è bianca, l’hanno riaperta da poco”- risponde lui – “Ma si sale agevolmente!. Mica penserete che ci sia pericolo come dice quella giornalista de L’Unità?. Andate! Lassù il paesaggio è stupendo.”

Siamo eccitati dall’avventura, uscendo dal paese percorriamo in salita gli ampi tornanti provocando alle nostre spalle un nugolo di polvere, e, dopo la galleria, sbuchiamo nel paesaggio montano della valle del Vajont.

Siamo soli, in assoluto silenzio, davanti la diga più alta del mondo, e dietro il grande lago che si insinua lungo la vallata. Sulla sponda destra osserviamo un’inquietante frana fangosa, ma veniamo distratti dalle foreste di abeti che come un verde mantello scendono ripide dalla montagna verso il bacino; il loro intenso profumo è rasserenante. Camminando lungo il coronamento della diga arriviamo al centro, dove ci sporgiamo: c’è un vuoto assoluto da vertigine.

Il cemento è bianco e pulito, il sole è a picco, ma dal basso proviene un’aria fredda e umida. In fondo alla valle, oltre il Piave, vedo Longarone, con le sue case ben allineate. Sento una campana che laggiù suona da lontano, poi, come rispondendo a un ordine, risuonano a festa tutti i campanili lungo la vallata.

Risaliamo in automobile per trovare un luogo dove poter fare merenda, ma solo avvicinandoci al paese di Erto i prati digradano lentamente sul lago. Seduto presso il bordo, osservo la mulattiera che scende con una svolta nelle acque; l’erba è verde, fluttua in quell’acqua cristallina e il sole ne fa scintillare il colore.

Ammiriamo il paesaggio con in mano il panino farcito di mortadella. “Ragazzi – dice papà – vedete lassù quella montagna più alta? È Il Col Nudo; ci sono stato con la società alpina friulana. C’è una vista stupenda: da ovest si vede tutta l’ampia cerchia delle Dolomiti, a est le alpi Giulie fino al monte Canin e poi al mare.”

Marco mi guarda e in quel sorriso complice penso: “Anche noi un giorno!”

Le montagne si riflettono a specchio. Tutto attorno a noi c’è armonia di profumi e colori.

A un tratto un colpo profondo con un sordo boato proveniente dalle viscere della terra ci fa trasalire, trema tutta la vallata, l’acqua si increspa, poi torna la solita calma. Noi però, non siamo più in pace. Ci guardiamo sgomenti cercando una risposta. “Ragazzi”, – ci rassicura papà: “È stata solo una scossa di terremoto”. Io però sento una fitta allo stomaco e mi tremano le gambe, anche Marco balbetta.

Il monte Toc

Sopra la strada presso una valletta, vediamo due contadini che prima rastrellavano il fieno, con loro ci sono dei bambini che giocavano a rincorrersi: ora sono fermi e i loro volti sono rivolti al monte Toc. “È meglio che andiamo!” dice papà. Camminiamo in salita, con un’insolita forza sulle gambe. Siamo sulla strada e papà alza la mano in segno di saluto al signore anziano che poco sopra avvicina i suoi attrezzi a una gerla. Scende di pochi passi verso di noi: ha un volto sano e abbronzato dal sole, l’occhio limpido dell’uomo delle montagne, un cappello in testa, e sorregge la lunga falce, chiusa tra le mani nodose. Saluta con un ”bondì”. ”Ha sentito?” gli chiede papà. Lui con aria corrucciata risponde: “È da tempo che la montagna trema, qui la gente ha paura, non so che dirvi, ma è meglio che andiate via e di corsa!” “Se vedon”, dice ancora! Poi si volta e lo vediamo risalire verso il mucchio di fieno, dove la moglie con il façul in testa e in mano un rastrello, accenna ad uno stentato saluto. Attorno a loro, i bambini hanno ripreso a rincorrersi. L’automobile parte. Attraverso il finestrino seguo in lontananza il riso e i volti sereni di quei bambini con cui vorrei giocare. La strada continua lungo il lago verso il passo di Sant’Osvaldo. In ginocchio, sul sedile posteriore, guardo dal lunotto la sua splendida scia turchina, i verdeggianti pascoli e il colore oscuro delle foreste. Svoltata una curva, più niente.

Il paese di Cimolais ci accoglie con un respiro di sollievo, poi più giù Barcis. Lungo la strada scavata nella roccia della val Cellina osservo i meandri del torrente levigati dall’acqua; immagino le sottili muraglie di roccia in antichi castelli a difesa di orridi draghi.

Arrivati a Udine nella palazzina di via Bezzecca, la mamma e mia sorella Tiziana ci accolgono con affetto. I racconti si fanno fitti per i luoghi visitati e i cari saluti dalle zie; quando raccontiamo della scossa alla mamma, le si stringono gli occhi e dice: ”Non si era detto che dovevate passare per Vittorio Veneto?”. Papà alza gli occhi, minimizza e dice: “Quella diga, la più alta del mondo, i ragazzi volevano… vederla!”. La mamma sorride e noi con lei; e risponde: “Renzo, come al solito fai sempre di testa tua!”.

L’estate passa velocemente e ai primi di ottobre inizio la seconda elementare, alla “IV Novembre” con il maestro Comuzzi. La sera del nove ottobre noi bambini siamo già a dormire dopo il “Carosello”; gli adulti tardano per vedere alla televisione un’importante partita di pallone. La mattina seguente la mamma prepara il caffè che porta a papà, la colazione è pronta. Le solite raccomandazioni di ogni giorno, poi Marco parte a piedi verso la scuola media “Manzoni”, mentre Tiziana ed io saliamo sulla bici dove ci contendiamo la canna orizzontale e il porta pacchi. Papà ci accompagna fino alla scalinata della scuola; con un grande sorriso ci saluta e prosegue lungo la via di fianco alla caserma militare per inoltrarsi verso la Banca del Friuli, in centro, dove lavora come impiegato. Entriamo in classe. Sui nostri banchi reclinati c’è incastrato nel legno il calamaio. Iniziamo a ricopiare le prime lettere dell’alfabeto, usando il lapis; siamo impazienti di intingere il pennino nell’inchiostro ma non lo sappiamo ancora usare.

Verso le dieci e mezzo, dopo la ricreazione, un insolito trambusto di porte sbattute e grida percorre le stanze della scuola, si sente un vociare sostenuto di lamenti lungo il corridoio. Il direttore irrompe nella classe senza bussare. Noi bambini ci alziamo velocemente in piedi. Ha un volto emozionato, si avvicina al maestro e sussurra delle parole. Il maestro ora ha gli occhi fuori dalle orbite, poi si appoggia con le braccia alla cattedra. Sembra che barcolli e porta una mano alla bocca, dicendo: “Com’è possibile?”. Poi si rianima, mentre noi nel guardarli siamo tutti agitati. “Bambini“ – ci dice – il radiogiornale ha trasmesso una terribile notizia. La diga del Vajont è crollata, Longarone non c’è più.”

Ci guardiamo allibiti e ci chiediamo: “Cosa vuole dire, non c’è più?”

Il maestro ora è seduto e tiene le mani sulla testa come a tentare di contenere le emozioni, ma piange, mentre il direttore se ne esce dalla classe. In un attimo siamo attorno a lui come a cercare di consolarlo e poi gli facciamo mille domande; ma lui non si capacita di ciò che è successo. Noi bambini siamo disorientati e svuotati del nostro corpo sotto i grembiuli neri con i colletti bianchi e i fiocchi azzurri. Qualcuno piange, altri ridono.

Il maestro si ricompone e dice “Tornate ai vostri banchi”. Disegniamo la diga e il lago; siamo irrequieti come puledri imbizzarriti, escono fuori solo scarabocchi di pesci mostruosi. Vorremmo abbracciare mamma e papà, ma non si può, bisogna aspettare il suono della campanella. Arriva finalmente mezzogiorno e gli scolari sono in fila per due in corridoio, ma sbandano come giunchi al vento. Fuori ci sono i genitori che ci aspettano, papà non è ancora arrivato. Sono disorientato: guardo alcune donne che abbracciano piangendo i loro bambini. Un anziano ben vestito con cappello, barbetta bianca e occhiali è rigido e pallido sull’attenti, sembra un ufficiale in trincea e dice “Scugne jessi fuarts!”

Le risponde una signora: ”Fuarts di ce? par cui?” Poi, sentendosi mancare, si aggrappa alle braccia del marito.

Mi sembra che si sia rivoltato il mondo e mi prende una leggera emicrania, poi papà finalmente arriva con la sua bicicletta blu e Tiziana per mano. Anche lui ha il viso accigliato e, preso dall’emozione, mi abbraccia. Saliamo sulla bici, tutti si defilano senza salutarsi verso casa con gli occhi bassi. Anche il vigile al centro delle zebrate di via Girardini ha gli occhi umidi, e mentre passiamo, invoca monosillabi.

Percorriamo via Marco Volpe, poi via Mentana. La cucina della casa al terzo piano in via Bezzecca è deserta, la mamma non ha fatto il pranzo. Poi si viene a sapere per telefono che ci aspetta nella casa della nonna Maria.

La mamma è in mezzo al giardino, in piedi, mentre la nonna se ne sta in disparte. La sua bellezza dai capelli biondi è segnata da una tristezza incolmabile noi andiamo subito ad abbracciarla, poi vedendo mio padre incomincia ad agitarsi e prorompe in un pianto liberatorio dicendo: “Renzo! Non pensi che potevate essere anche voi dentro quella fossa?”. Non capiamo niente, noi bambini non capiamo mai niente, piangiamo nel vedere i nostri genitori così stravolti. Papà grida; “Taci”. Poi l’abbraccia forte, forte. La mamma si calma e noi riapriamo gli occhi. Ora siamo tutti uniti.

Oltre la cancellata, lungo la via, ci sono capannelli di persone affrante che bisbigliano tra loro con le braccia abbandonate lungo i fianchi. Da una finestra con il balcone aperto sento una donna che tra i singhiozzi invoca: “Ma Pieri?, ce saraial dai nestris amîs?”. Io penso a quei bambini che giocavano su quei prati e li immagino salvi e protetti dalle loro madri.

A sera, in quel tramonto di fuoco, alcune persone sostano sul ciglio della strada di via Mentana, scrutando la linea dei monti in direzione del Monte Cavallo; allungano la vista, come a voler percepire oltre l’orizzonte il segno della ferita nel costato di Gesù.

I volti poi si abbassano e si sente una preghiera. “Ave Maria…” Poi il buio.

Le vicende raccontate sono tratte dalla libera ispirazione dell’autore.

Roberto Zeloni

(Socio dell’Associazione dei Toscani in Friuli Venezia Giulia)

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